Max Croeg: a pochi mesi dal suo album di esordio torna con "Hypnotic pathway"

Oggi noi di Musica361 siamo in compagnia di Max Croeg che, a pochi mesi dall’uscita del suo album di esordio “Amore, ragione e orizzonti sfuocati”, pubblica il singolo “Hypnotic pathway“. Un passato da avvocato per questo autore che spazia tra vari generi e che ha seguito infine la vocazione di compositore musicale.

Ciao Max, innanzitutto ti chiedo di presentarti agli amici di Musica 361…

Ciao, per prima cosa voglio ringraziarti per il tuo invito, che mi dà l’opportunità di far conoscere la mia musica ad un pubblico numeroso qual è quello di Musica361. Max Croeg è il mio nome d’arte. L’ho scelto non solo perché Massimiliano Greco, che è il mio vero nome, mi sembrava inadatto come nome artistico, ma anche perché ho scoperto di avere diversi omonimi, credo anche nell’ambiente musicale. Così ho scelto un alias che evitasse di ingenerare confusioni e che riprendesse comunque il mio vero nome (Croeg è l’anagramma di Greco).

Ho studiato pianoforte, senza tuttavia conseguire il diploma, e ho imparato, da autodidatta, a suonare la chitarra, il basso e la batteria.

Vivo in provincia di Firenze e la voglia di dedicarmi alla composizione musicale è tornata dopo molti anni. La abbandonai in favore degli studi universitari. Così mi sono laureato in giurisprudenza, ho superato l’esame di Stato e ho esercitato fino a poco tempo fa la professione di avvocato, sospendendo poi l’attività, non solo per la difficoltà di sostenere le enormi spese che la professione comporta, ma anche e soprattutto perché è un lavoro che non si adatta alla mia personalità (ahimè) decisamente e irrimediabilmente schiva.

La voglia di fare musica è rinata appunto in questo contesto per così dire esistenziale. Ma non si tratta di un ripiego. In realtà è un desiderio da sempre latente, che sarebbe in ogni caso riaffiorato prima o poi. Ammesso che io abbia una vocazione, quella è senz’altro la composizione musicale, perché tra le cose che riesco a fare, è quella che si adatta meglio alla mia personalità e che mi dà un grande senso di appagamento.

Dal punto di vista musicale quali sono i tuoi punti di riferimento, a chi ti ispiri in particolare?

Non è facile dirlo. Come ascoltatore ho avuto molti “innamoramenti”. Allorché mi appassionavo ad un musicista o ad una band, non c’era spazio per altri. Così c’è stato il periodo dei Byrds, dei Beatles, dei Traffic, degli Smiths, dei R.E.M. Naturalmente anche il cantautorato italiano, soprattutto della scuola romana. Il jazz classico di Charlie Parker, Count Basie, Lester Young. Ma anche l’hip hop old school.

Quando ho ripreso a comporre, non ero in un momento di particolare innamoramento, per cui non ho avuto ispirazioni consapevoli, ma la musica assimilata come ascoltatore avrà sicuramente influenzato quella che ho realizzato e anche quella che realizzerò in futuro.

Tornando al tuo ultimo lavoro, vuoi introdurci il singolo “Hypnotic pathway”?

Se c’è un genere con cui si identifica il ritmo, quello è il funk e le sue derivazioni, come l’hip hop. Ti fa avvertire delle vibrazioni nel corpo alle quali è difficile resistere, e volente o nolente devi muoverti in qualche modo. Ecco, ho sentito una grande voglia di creare brani che potessero indurre queste vibrazioni e Hypnotic pathway è un tentativo, spero riuscito, di realizzare questo obiettivo.

Esce pochi mesi dopo l’album di esordio, “Amore, ragione e orizzonti sfuocati”, ci sono delle differenze?

Sicuramente sì. L’album “Amore, ragione e orizzonti sfuocati” è un disco che si inserisce nel solco della tradizione cantautorale, anche se in qualche brano emerge il mio bisogno di “ritmo”, come per “Cento falsi miti” o per “Delirio da amore tossico”. In ogni caso Hypnotic pathway è un brano strumentale, per cui, anche da questo punto di vista, esprime un percorso differente.

Come definiresti il tuo genere musicale?

In realtà non credo di poter vantare l’appartenenza ad un genere, perché ne amo tanti e voglio cimentarmi con tutti. Nel mio caso credo che si adatti meglio la classificazione più radicale: quella tra buona e cattiva musica. Naturalmente spero che la mia sia buona.

La tua tematica principale è sicuramente l’amore, ma c’è spazio anche per i contenuti sociali?

Sì. Nell’album c’è qualche riflessione sulla difficoltà di individuare dei valori morali solidi nella società liquida in cui viviamo, in cui il materialismo ha ormai preso un deciso sopravvento, difficile da sradicare. L’auspicio è che, per qualche miracolo, le generazioni future riescano nell’impresa. E’ questo il tema di “A chi verrà” e del brano “Dove l’orizzonte è più blu”. Ma anche “Cento falsi miti” fa riferimento alle ripercussioni che le mete imposte dal materialismo imperante (i cento falsi miti, appunto) hanno sui rapporti di coppia, rendendone difficoltosa la tenuta.

Una canzone sicuramente molto importante è “Il futuro in una valigetta” che contiene un messaggio utile per i giovani, cosa ti ha portato a scrivere questa canzone e come vedi le nuove generazioni?

Per fortuna non è ancora il momento per me di fare un bilancio della mia vita, di cui sono comunque, fin qui, molto soddisfatto, avendo una moglie e una figlia che amo molto e da cui sono (così almeno mi sembra) ricambiato. Ma certamente la canzone nasce da una riflessione sulla mia personale esperienza. Da adolescenti è molto difficile capire qual è la propria vocazione, che cosa si vorrebbe fare da grandi: per capirlo, più che di una riflessione credo che ci sia bisogno di un’illuminazione.

Così accade che si disperda il proprio tempo in cose inutili, in bravate, qualche volta in esperienze estreme, che denunciano quasi sempre un disagio. Intanto il tempo passa senza che ce ne accorgiamo, e così ci troviamo, ammesso che quelle esperienze non siano sfociate in tragedie, a dover fare delle scelte, necessarie per il proprio sostentamento, e dunque a svolgere attività lavorative che mortificano i talenti che forse avevamo e che sono destinati ad un oblio definitivo. Ecco, il brano si riferisce a questo e all’importanza, direi alla fortuna, di scoprire al più presto la propria vocazione e spendere energie per darle concretezza, per non avere rimpianti quando non sarà più possibile fare scelte diverse.

Vai un po’ in controtendenza, a differenza di molti tuoi colleghi non sei presente nei social, come mai questa scelta?

C’è stato un momento, all’inizio di questo mio percorso musicale, in cui mi sono iscritto a qualche social network, ma dopo l’entusiasmo iniziale mi sono reso conto che si tratta di luoghi affollatissimi, caotici e soprattutto non meritocratici. Per ottenere numeri è necessario non soltanto spendere costantemente dedizione ed energie nella cura dei propri profili, ma anche e soprattutto soldi in promozione. E per quanti soldi un musicista indipendente possa spendere, il confronto con le major sarà sempre del tutto iniquo. Il risultato è che i numeri ottenibili dagli indipendenti servono solo a mantenere in vita gli stessi social network e a favorire gli artisti delle grandi casa discografiche, che in definitiva sono gli unici a trarre vantaggio da questo meccanismo.

Lo stesso discorso vale per le piattaforme di streaming, ma purtroppo oggi l’industria musicale funziona così, e da qualche parte bisogna pur essere per farsi trovare. Così ho eliminato i miei account sui social e anche il mio canale ufficiale dell’artista YouTube (è rimasto il canale tematico, che non c’è stato verso di eliminare), e la mia musica è presente solo sulle piattaforme di streaming.

Prima di salutarci ci puoi parlare dei progetti futuri, sappiamo che c’è qualcosa che bolle in pentola…

E’ così Ruggero. Sto realizzando un album di soli brani strumentali, di cui ho voluto dare un’anticipazione con la pubblicazione del singolo “Hypnotic pathway”, di cui abbiamo già parlato.  Ma non sarà l’unica anticipazione, poiché vorrei dar conto della diversità dei generi esplorati dall’album con la pubblicazione di altri due brani che ne faranno parte.  Spero di poter pubblicare l’intero album entro i primi mesi del 2025.

Gianni Ventola Danese: la Fisarmonica Diatonica incontra per la prima volta la musica classica 1
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Oggi noi di Musica361 siamo in compagnia del Maestro Gianni Ventola Danese per l’uscita di “Classico”, il suo ultimo lavoro. Da Shostakovich a Bach, passando per Puccini, la musica colta viene eseguita con la Fisarmonica Diatonica…

“Classico” è un album molto particolare perché la Fisarmonica Diatonica, conosciuta come Organetto, incontra per la prima volta la musica classica, come nasce questa idea sorprendente?

Anche se può apparire strano, il panorama della musica colta è sempre stato un territorio fertile per la realizzazione di rielaborazioni e di sperimentazioni musicali. In questo senso anche la musica classica è a modo suo musica popolare poiché diventa materiale da plasmare e da reinterpretare, seppur con una certa cautela dato che abbiamo a che fare con i padri nobili della cultura musicale di tutti i tempi. Posso fare alcuni esempi, come la formazione dei King Singers che ha rielaborato i capolavori della musica classica per ensemble vocale, o ancora il Quartetto Rastrelli capace di riplasmare pagine immortali, anche operistiche, nella inconsueta sonorità di un quartetto di violoncelli, o ancora, infine, la formazione vocale tedesca Slixs che ha dedicato a Bach un suo personale gramelot musicale per dare vita a vere e proprie orchestrazioni a cappella delle opere del maestro di Lipsia. Potrei continuare ma mi fermo qui perché per ogni strumento musicale esistono delle registrazioni in ensemble che ripropongo delle celebri composizioni classiche. Quindi perché non con i 21 tasti della Fisarmonica Diatonica? Forse perché non è molto semplice, è vero, ma qualcuno prima o poi avrebbe dovuto provarci.

Da Šostakovič a Bach, passando per Puccini, la musica colta viene eseguita con la Fisarmonica Diatonica che è stata tradizionalmente relegata alla musica FOLK, è una rivalsa per questo strumento che ha forti potenzialità? 

Non direi che è una rivalsa, anche perché non è la prima volta che affronto con la Fisarmonica Diatonica un repertorio lontano dagli stereotipi della musica folk. I miei ultimi tre lavori discografici riguardavano il tango argentino, da Villoldo a Piazzolla, le composizioni di Ennio Morricone, e una inedita antologia di canzoni del periodo sovietico in compagnia del soprano Ekaterina Barinova. Questo mio lavoro è solo la continuazione di un percorso di ricerca musicale su uno strumento la cui letteratura è per così dire congelata da almeno mezzo secolo in un repertorio dalla generica etichetta “world” o in un canone di musica di accompagnamento alle danze popolari.

Il motivo è molto semplice: non esiste un percorso di formazione musicale per questo strumento che sia strutturato come ad esempio quello che si riceve nei Conservatori, e persino i principali interpreti di questo strumento non sono altro che ammirevoli autodidatti, me compreso, ognuno con la sua peculiare formazione musicale alle spalle. Per questo la fisarmonica Diatonica, o organetto, ha sempre mancato quel salto di qualità che avrebbe potuto dare vita a un percorso musicale differente o alternativo, più improntato a una dimensione colta.

Ma ecco che veniamo al nocciolo della questione. Come ha detto il grande fisarmonicista francese Richard Galliano: “Non è mai lo strumento a essere limitato, semmai lo è l’Interprete”. Tuttavia nel mondo della Fisarmonica Diatonica, ovvero dello strumento con 21 tasti e 8 bassi, questa logica non ha attecchito e non è stata accolta, anzi, invece di veder crescere la cultura musicale, esecutiva ed interpretativa degli appassionati di questo strumento, si è optato per sopperire alle limitazioni dello strumento, e così oggi assistiamo a un anarchico florilegio di modifiche e di personalizzazioni, ci sono “organetti” a 12 bassi, persino uno a 16, e poi 18, 24, 32, al canto a 3, 4 o addirittura a 5 file seguendo la regola non scritta del “più pago, più note posso suonare e più facilmente”, e lo strumento e la sua tecnica in questi casi sono completamente snaturati. Ecco, questa è una logica che deriva proprio da un mondo musicale dove manca una tradizione conservatoriale e da una idea stessa della musica che potremmo quasi definire “hobbistica”. Per quanto mi riguarda, venendo dalla musica classica, non sono mai stato attratto da questo modus operandi e ho sempre lavorato per sviluppare la cultura musicale, la prassi musicale e il repertorio piuttosto che adattare lo strumento ai miei desiderata. Posso fare l’esempio della Balalaika, strumento popolare della musica folk russa e non solo russa che ha solo tre corde e nonostante questa sua evidente limitazione costruttiva è entrata a far parte della tradizione colta non solo grazie a grandi virtuosi che ne hanno rivoluzionato tecnica e repertorio (il più celebre è sicuramente Michail Rozhkov), ma anche all’attenzione di compositori di ambito classico che le hanno dedicato pagine concertistiche memorabili. Da oltre due secoli la Balalaika ha solo tre corde e nessuno ha mai nemmeno sognato di proporre l’aggiunta di una quarta corda. Quindi come ha detto lei, sì, ci sono grandi potenzialità nello strumento non solo al di fuori del solito repertorio, ma anche al di fuori di una certa logica consumistica dello strumento. E forse questo è uno dei messaggi impliciti in questo mio lavoro.

Come pensa che il mondo della Classica accoglierà questo suo importante lavoro?
Non ne ho idea, il disco è appena uscito e sto aspettando le prime reazioni. Spero che verrà apprezzato o almeno ascoltato e che la critica di questo settore non disdegni l’interpretazione di capolavori come le Variazioni Goldberg di J.S. Bach con la Fisarmonica Diatonica. Non è la prima volta che la musica classica viene suonata con la Fisarmonica, quella cromatica intendo, ma per la Fisarmonica Diatonica è un debutto assoluto, quindi il mio auspicio è che ci siano critici musicali in Italia che abbiano il desiderio di ascoltare nuove sonorità applicate a Bach, Puccini o Shostakovich. Sarebbe anche interessante ricevere delle critiche, per poterne fare tesoro e migliorare.

Cosa vede nel futuro della Fisarmonica Diatonica (introduzione nell’insegnamento al Conservatorio, avvicinamento dei più giovani)?
Cosa vedo e cosa spero purtroppo sono due cose diverse. Vedo un progressivo abbandono dello strumento a favore di strumenti personalizzati e adattati alle singole esigenze dei suonatori e purtroppo il rigetto di questo strumento tanto nobile quanto elegante nella sua semplicità è anche un segno dei nostri tempi. Spero invece che si realizzi una crescita generale della cultura musicale in Italia e non solo in Italia, che faccia capire ai giovani che con la Fisarmonica Diatonica possono suonare la musica popolare, ma anche l’Ave Verum di Mozart, e l’organetto in questo senso potrebbe essere un potente motore dello sviluppo delle competenze musicali dei più giovani, proprio perché la musica classica offre una infinita varietà di stili, di modalità, di forme, di complessità, di strutture musicali che la musica folk da sola non potrà mai offrire.

Se crescerà anche la cultura del pubblico della Fisarmonica Diatonica, crescerà anche il suo repertorio in qualità e quantità. Per questo motivo mi auguro che come già avvenuto per la Fisarmonica Cromatica, anche l’organetto sia ufficialmente inserito come strumento di Conservatorio con un programma di studio che spazi dalla musica popolare, alla composizione, all’armonia fino al repertorio classico. Questo è il mio personale punto di vista, cioè che una formazione musicale classica sia propedeutica e fondamentale per poter capire profondamente tutta la musica e i suoi infiniti linguaggi.

Ed è anche per questo motivo che insieme all’uscita dell’album il progetto comprende anche la pubblicazione di tutti gli arrangiamenti per organetto da me scritti per la realizzazione di questo disco, un primo mattone per la creazione di una letteratura classica per organetto che potrebbe entrare nei programmi didattici di un possibile Corso di Conservatorio, ma mi auguro che possa anche essere l’occasione per molti suonatori di cimentarsi autonomamente con questo tipo di repertorio e il fatto che in molti abbiano acquistato la raccolta di partiture insieme all’album è per me un segnale molto positivo.

Parlando di lei e della sua solida formazione musicale, quali sono i suoi punti di riferimento artistici?
Ho avuto la fortuna di ascoltare molta buona musica fin dalla tenera età avendo avuto come maestro delle elementari un diplomato in pianoforte che ci suonava in classe, a cinque anni, la trascrizione di Liszt della Nona di Beethoven, fu un imprinting, prendendo in prestito un termine dall’etologia, che io auguro a ogni bambino di quella età, forse si venderebbero più dischi di Classica e meno di trap e pop.

Per questo i miei punti di riferimento sono sempre stati i grandi compositori del passato, anche recente, come Shostakovich e Morricone, ma se vogliamo parlare specificatamente di Fisarmonica, allora il mio punto di riferimento è sicuramente il percorso che ha fatto Richard Galliano con la Fisarmonica Cromatica, provenendo dalla musica popolare, dalla splendida atmosfera musette francese, passando per il tango, fino al jazz per approdare a Bach e ultimamente addirittura a trascrizioni per Fisarmonica di Chopin e Satie, autore quest’ultimo che compare anche nel mio album.

Non solo, anche nel bandoneon ci sono interpreti che seguo con molto interesse, come ad esempio Claudio Costantini che per la prima volta ha pubblicato qualche giorno prima di me il suo disco di musiche bachiane interpretate al bandoneon, e questa è una casualità significativa perché entrambi non eravamo a conoscenza dei nostri progetti, ciò significa che nel mondo della Fisarmonica, e ci metto dentro anche il Bandoneon, si sta aprendo una nuova fase dove la musica classica scritta due o trecento anni fa torna a rivitalizzare la prassi musicale e il repertorio di questi strumenti.

Ha anche un account Facebook molto seguito, come si trova a usare i social, soprattutto considerando che i suoi contenuti non sono frivoli, ma molto importanti?
I social possono aiutare a farsi conoscere ma bisogna investirci molto tempo, oppure avere un team di professionisti che lavorano per te, e nel mio caso non ho entrambe le cose. Non pubblico molto, non registro storie e video giornalieri, la mia pagina Facebook va avanti un po’ in modo artigianale ma nonostante questo, con mia grande sorpresa, sembra che sia seguita, e almeno nel mondo dell’organetto è tra le più seguite forse anche per il mio modo di lavorare un po’ fuori dagli schemi.

Lei ha detto bene, oggi in rete i contenuti frivoli sembrano avere la parte del leone e i social purtroppo da questo punto di vista hanno contribuito al decadimento culturale di ciò che oggi si può trovare su queste piattaforme, ed è anche e soprattutto per questo che non sono mai andato alla ricerca del “like”.

Se possiamo considerare anche Spotify come un social, chiedo venia per questa licenza poetica, allora ci tengo a dire che io per scelta non sono su Spotify, per due motivi precisi. Il primo è che Spotify ha raso al suolo la produzione dei dischi e ha causato la scomparsa dei negozi dove questi si vendevano e dove si andavano a cercare e ad ascoltare le cose nuove, togliendo ai musicisti una delle loro principali fonti di guadagno e di fatto impoverendoli, oggi la maggior parte degli artisti deve “regalare” la propria musica a Spotify per incassare qualche decina di euro ogni sei mesi per gli ascolti.

In secondo luogo, per me che suono in acustico, dove l’elemento sonoro e la sua qualità sono fondamentali e per i quali lavoriamo in studio e missaggio per salvaguardare le pur minime sfumature del suono, non è accettabile che la musica venga distribuita ed ascoltata su queste piattaforme nei formati cosiddetti “Lossy”, come ad esempio il formato mp3, che impoveriscono e degradano il suono finale in modo irrimediabile.

Nella sua intensa attività artistica è sicuramente molto rilevante la ricerca musicale, in Italia ha trovato delle difficoltà in questo senso? In generale quali sono le criticità per chi vuole fare musica nel nostro Paese?
Direi che non ho trovato difficoltà, ho la fortuna di fare ciò che mi piace e in modo assolutamente libero, quindi oggettivamente nessuno potrebbe crearmi delle difficoltà, poi ovviamente il panorama musicale che sta intorno alla Fisarmonica Diatonica è abbastanza conservativo e ciclico, ovvero si tende a ripetere sempre le stesse cose in forme leggermente diverse e quindi alle volte faccio fatica a trovare interlocutori che condividano uno sguardo più ampio sulla ricerca musicale per questo strumento e sul suo repertorio, per questo quasi sempre registro i miei dischi all’estero e collaboro con musicisti che provengono dal mondo della musica classica o del jazz piuttosto che dalla musica popolare.

Le criticità come le chiama giustamente lei per chi vuole fare musica in Italia sono molte, ci vorrebbe uno spazio che ora non abbiamo per spiegarle tutte, ma sicuramente esiste un problema di budget o politico, ovvero lo Stato non investe abbastanza in musica, teatri, orchestre, scuole di musica, Conservatori, la musica è un lavoro duro che richiede fatica, tempo e sacrifici e oggi anche i più bravi faticano a trovare prospettive concrete.

In Italia sembra che esista solo La Scala e la sua Prima del sette dicembre, ma io vorrei una diretta televisiva per la Prima di ogni teatro d’opera in Italia, vorrei ascoltare più concerti alla televisione perché questo farebbe sentire a chi lavora di musica che la sua attività è comunque degna di attenzione e al centro della vita sociale e culturale, ma purtroppo non è così, e a chi voglia fare musica in Italia consiglio di non perdere l’entusiasmo nonostante le tante difficoltà, di lavorare sempre al servizio della musica, prima di tutto.

Prima di salutarci può anticipare i suoi prossimi progetti lavorativi?
Essendo l’ideatore del più seguito Corso Online di Fisarmonica Diatonica al mondo – www.organetto.name – e avendo allievi in tutta Italia e nel mondo, ciò rappresenta uno dei miei principali progetti lavorativi, sempre in movimento e in aggiornamento. I progetti musicali che ho in mente sono molti, in un prossimo futuro vorrei tornare a scrivere degli arrangiamenti per organetto e voce per un nuovo disco, magari di musica popolare questa volta, ma sicuramente anche il discorso sulla musica classica non è chiuso, ho in mente un progetto molto ambizioso che forse mi occuperà per molto tempo e spero un giorno di poterlo presentare con lei in una nuova intervista con Musica361! Ricordo ai lettori che vogliano conoscere meglio la mia discografia e/o acquistare i miei lavori discografici, anche in formato Digital Album High Quality, la mia pagina 

LEGGI ANCHE > Butt Splitters, Nibelvirch: un album che ci parla di un amore che si rincorre nei millenni

Butt Splitters 1

 

Oggi siamo in compagnia di Carlo Tabarrini, chitarrista dei Butt Splitters, per l’uscita dell’album Nibelvirch: un lavoro molto particolare che si basa sulla vita affascinante di Paul Amadeus Dienach, protagonista di una storia che vi lascerà senza parole…

Ciao Carlo, innanzitutto ti chiedo se puoi presentare i Butt Splitters agli amici di Musica361…

Certo. I Butt Splitters nascono circa sei anni fa dall’unione di cinque elementi accomunati da una grande amicizia ma soprattutto dalla stessa passione per la musica metal. Proveniamo tutti da diversi gruppi, MACE, JUMPING SHOES, SYNTHESIS, GLORY HUNTER, OXODURO, il nostro scopo è solo divertirsi e far divertire, infatti nasciamo come una cover band. Abbiamo fatto numerosi concerti in giro per il centro Italia fino all’avvento del Covid, che realmente ci ha bloccati. In questo periodo di pausa forzata abbiamo cominciato a condividere riff e pezzi inediti che sono sfociati nel disco in questione dal titolo NIBELVIRCH. Il gruppo è composto da: Stefano “bubba” Firmani alla voce, Marco Radicchi alla chitarra solista e cori, Francesco Martinelli al basso e cori, Matteo Scorsolini alla batteria ed io alla chitarra ritmica.

Gli elementi del gruppo sono tutti accomunati dalla passione per la musica Metal, ma quali sono i vostri gruppi di riferimento musicale? A chi vi ispirate?

Le influenze musicali sono molteplici, andiamo dal metal anni ’80 fino a sonorità più moderne, infatti le nostre cover spaziano dagli Iron Maiden fino ai SOAD (System of a Down) per intenderci. Nel disco abbiamo miscelato tutte queste influenze nella parte strumentale e ne sono usciti pezzi particolari e originali (secondo il mio modesto parere) e molto moderni per quanto concerne i suoni.

Recentemente è uscito il vostro album Nibelvirch, vuoi parlarcene?

NIBELVIRCH nasce dalla voglia di creare qualcosa di originale e la pausa forzata del Covid, per quanto possa essere assurdo, l’ha resa possibile. Il disco è un concept, ma anche questa cosa è uscita fuori in modo del tutto spontaneo, la formula del concept ci ha permesso di fare un lavoro complesso ed interconnesso tra i pezzi ed è stato più gratificante e stimolante che creare la solita canzone a se stante, in poche parole ci siamo divertiti parecchio.

Si tratta di un concept album, le canzoni sono legate da un filo tematico, in particolare l’argomento sono i controversi diari di Paul Amadeus Dienach, un tema interessante, potresti approfondire?

NIBELVIRCH: termine che indica la nuova capacità cognitiva raggiunta dalle persone, una nuova antenna di comprensione. Cosa significa? l’intero album si ispira alla vita di Paul Amadeus Dienach. C’è un libro dal titolo “Cronache dal Futuro”, parla di un insegnante svizzero di Tedesco che nasce alla fine del diciannovesimo secolo. Nei primi anni del ventesimo secolo si innamora di Anna, e vive un amore travolgente, Anna però dietro ordine del padre va in sposa ad un ricco commerciante. Si ammala e muore di Tubercolosi. Paul è disperato e pure lui si ammala di encefalite letargica, la malattia del sonno. Si addormenta due volte, nel 1917 e il suo coma dura 15 gg, si risveglia e continua tranquillamente la sua vita. La seconda volta nel 1921, l’attacco è più grave, entra in uno stato di incoscienza per un anno. Al suo risveglio si ricorda di aver vissuto un’esperienza straordinaria. Nello stesso periodo che il suo corpo era incosciente all’ospedale di Zurigo, la sua coscienza si trasferisce nel corpo di Andreas Northam, uno scienziato che vive in Italia, ma nel 3905.

Butt Splitters, Nibelvirch: un album che ci parla delle "Cronache dal Futuro"

Una storia affascinante

Non riconosce nessuno, neanche il suo aspetto, visto che il corpo è di Andreas e non capisce neanche la lingua con cui parlano. Un misto di sassone e scandinavo. Oltretutto nel futuro soffre di insonnia. Passa le notti a studiare la storia del mondo in quei 20 secoli che lo separano dalla sua era. Vive, viaggia e si innamora. Il resto non lo raccontiamo altrimenti roviniamo la sorpresa.
Diciamo che quando torna nel suo tempo scrive un diario e racconta tutte le esperienze e le notizie che aveva appreso. Si ammala anche lui di tubercolosi ed i medici gli consigliano di andare in un posto temperato. Sceglie la Grecia e continua a fare l’insegnante di tedesco. Ha uno studente in gamba, Georgios Papachatzis al quale consegna il manoscritto da tradurre dal tedesco al greco, per esercizio, ma senza dirgli nulla. Tutto il resto potete leggerlo in rete.

Da dove nasce la passione dei Butt Splitters per una tematica del genere?

Quello che ci è piaciuto di più di questa storia straordinaria è il rincorrersi di un amore perduto che viene ritrovato a distanza di duemila anni. La speranza in un mondo migliore. Il messaggio da divulgare ai nostri contemporanei è che c’è un sistema differente di società. La possibilità di avere una qualità della vita migliore. L’inutilità del possesso delle cose, la fratellanza fra i popoli e l’abolizione delle frontiere.
Sarà vera questa storia? Questo non lo sappiamo, ma lo speriamo vivamente.

Tornando a voi, in questi tempi imperversano i talent, voi li prendete in considerazione?

Finora no, ma non dico che non potrebbe succedere. Secondo il mio parere i Talent hanno appiattito un po’, un po’ tanto, il significato di gavetta, di studiare uno strumento, di farsi le ossa con i live e magari far emergere le potenzialità di un cantante o di un musicista, ma è vero anche il contrario, che magari danno luce e notorietà a persone che altrimenti non avrebbero possibilità di averla.

Prima di lasciarci ci puoi parlare dei vostri progetti futuri?

Il nostro progetto nell’immediato è promuovere il più possibile il disco (NIBELVIRCH lo potete trovare in tutte le piattaforme) sia pubblicizzandolo il più possibile, sia suonando in ogni posto dove ce ne sia la possibilità. Per il futuro coglieremo ogni possibilità che ci verrà offerta o magari ci sarà un altro disco, staremo a vedere.

DJ Endrio

Oggi siamo in compagnia di DJ Endrio, DJ Producer di musica dance ed elettronica che recentemente è uscito con il suo ultimo brano “Sabroso”…

Ciao, vuoi presentarti agli amici di Musica361?
Ciao cari lettori di Musica361, sono Endrio Bonacci in arte Endrio DJ, mi sono avvicinato alla professione del Disc Jockey nel 2001 dopo aver frequentato la DJ Academy (la prima scuola per DJ in Italia) e da lì successivamente ho iniziato a lavorare nei principali club della mia regione (Umbria) e del centro Italia, oltre ad aver suonato in molteplici eventi musicali, tra i quali alcuni svolti al C.E.T., la prestigiosa scuola di Mogol. Nel corso della mia carriera, nei miei DJ set ho spaziato toccando un quarantennio di storia musicale, il tutto ovviamente adattandomi al pubblico che avevo davanti, passando dalla madre di tutta la musica da ballo, ossia la Disco Music, fino ad arrivare alla Dance attuale. Oggi suono principalmente musica EDM, Elettronica e House.

Quali sono in particolare i tuoi artisti di riferimento, a chi ti ispiri maggiormente?
Durante la mia carriera mi sono ispirato a molteplici DJ e musicisti, sia per costruire i miei DJ set, sia nel campo delle produzioni musicali, ne cito alcuni che hanno inciso maggiormente su me stesso. I Daft Punk che sono tra i paladini della musica elettronica e che hanno fatto ballare tutto il mondo con il loro sound futuristico. Tornando qualche anno indietro, impossibile non citare Nile Rodgers, pietra miliare della Disco Music, che oltre ad essere il fondatore degli Chic, ha arrangiato e prodotto alcuni tra i più grandi artisti del mondo (Madonna, David Bowie, Sister Sledge, Daft Punk, Avicii, Purple Disco Machine solo per citarne alcuni). Rimanendo in Italia, per un trentennio (anni 70-80-90) abbiamo esportato la nostra musica e fatto ballare mezzo mondo, ci vorrebbero ore per parlare dei progetti e artisti nostrani dell’ epoca, cito solo il genio di Giorgio Moroder a partire dai settanta e il movimento Italo-Disco degli anni ottanta.
Per quanto riguarda i DJ producers, David Guetta è stato colui che ha saputo miscelare il mondo della musica pop con quello della musica dance che fino a quel momento (metà anni 2000) non è che si amassero molto, è stato il primo a riuscire a coinvolgere star della musica pop in progetti dance ed oggi ormai è diventata consuetudine vedere collaborazioni anche tra artisti molto diversi tra loro che fino a qualche anno fa erano impensabili (tanto per fare un esempio recente, Tiësto, re della musica Trance, che produce un brano pop-dance con Karol G, star della musica latina). Per quanto guarda i DJ italiani, tra i tanti cito Gigi D’Agostino, che tra la fine degli anni novanta e gli inizi del 2000 ha rivoluzionato la scena dance con le sue melodie uniche sfornando hit planetarie. L’Amour Toujours, tanto per citarne una, tutt’oggi viene suonata e remixata da grandi DJ internazionali.
Relativamente alla musica pop italiana, non ho grandi riferimenti circa il panorama attuale, mi piace comunque molto Cosmo. Sono un fan di Rino Gaetano, di cui apprezzo i testi sempre attuali e il sound delle sue produzioni che ai tempi furono rivoluzionari e da molti non compresi. Infine, anche se trattasi di un mondo musicale un po’ distante da quello in cui lavoro, come non citare il patrimonio musicale italiano per eccellenza nel mondo, il maestro Ennio Morricone!

Sei un Dj con una vasta esperienza, quali consigli daresti a un giovane che vuole seguire questa strada?
Il primo consiglio che darei ad un giovane è quello di mettere la passione davanti a tutto, senza la passione per quello che si sta facendo non si va da nessuna parte, io ho iniziato ad avvicinarmi a questo mondo per passione e solo dopo, con tanto studio ed applicazione, è diventato un lavoro. Nel mondo social in cui viviamo, posso comprendere che questi aspetti per un emergente possano essere secondari e noiosi in quanto siamo bombardati continuamente da video e filmati di giovani artisti che vivono e si esibiscono nel lusso, e questo può far pensare che basti poco per diventare famosi senza far fatica. Per quanto oggi possa essere importante l’apparenza come non lo è mai stata, ritengo che in qualsiasi ambito per creare progetti di qualità si deve appunto partire dalla passione per quel che si sta facendo e tanto studio per migliorarsi sempre di più. In un mondo digitale dove tutto cambia rapidamente, studiare e rimanere al passo con i tempi è indispensabile. Prima di tutto le fondamenta, poi viene il resto.

Tornando a te, il tuo ultimo lavoro è “Sabroso”, vuoi parlarcene?
Quando ho iniziato a pensare e poi a comporre “Sabroso”, l’idea era quella di fondere il mondo della musica EDM (che sta per Electronic Dance Music) con quello della musica latina, che sono apparentemente così distanti. Poi un giorno mi trovavo in studio a Perugia mentre stavo lavorando ad un altro brano, quando dei colleghi mi hanno presentato il talentuoso cantante cubano David (in arte Dad Davy), a cui ho fatto ascoltare la traccia e ne è rimasto subito entusiasta. Ci siamo messi a lavorare in tandem e da lì a pochi giorni avevamo il testo che David ha magistralmente interpretato, il 21 giugno il brano è uscito con la casa discografica Liberty Edizioni. Credo che abbiamo fatto un buon lavoro, ho ricevuto molti feedback positivi, inoltre molti colleghi DJ mi hanno riferito che essendo un brano dal sapore molto estivo, è probabile che possa diventare un tormentone che sentiremo anche nelle prossime estati, io chiaramente me lo auguro!!

Hai una solida formazione acquisita frequentando la DJ Academy e il C.E.T. di Mogol, pensi che nel tuo settore ci sia ancora tanta improvvisazione?

Sì, penso che nel mio settore ci sia improvvisazione e che questo fenomeno sia in crescendo come in tutti i settori dove la tecnologia la fa da padrone, ora come non mai con l’avvento dell’ intelligenza artificiale. Adesso chiunque si può improvvisare Disc Jockey utilizzando i tanti strumenti che la tecnologia moderna ci mette a disposizione come Software e App che sono in commercio negli store digitali, alcuni anche gratuiti. Come in tanti settori, la tecnologia ti dà una grande mano e io stesso la utilizzo, ma come già detto in precedenza se non si hanno delle fondamenta solide non si fa tanta strada e non si dura nel tempo.

Oggi imperversano i talent, tu cosa ne pensi, ti piacerebbe partecipare?
Ci fosse l’occasione valuterei questa possibilità, anche se ad oggi non ho mai preso in considerazione di intraprendere questa strada, i talent hanno rivoluzionato il mondo della discografia ma come in tutte le cose ci sono i “pro” e i “contro”. Riagganciandomi a quanto detto in precedenza, prima dell’avvento dei talent (e anche dei social) per diventare un artista di successo dovevi studiare tanto e fare tanta gavetta, oltre chiaramente ad avere quel talento innato che ti deve contraddistinguere. Oggi vediamo ragazzini semi-sconosciuti diventare delle star da un giorno all’altro grazie ad una partecipazione ad un talent, che per questo motivo rappresentano appunto una potentissima vetrina. I “pro” riguardano l’aspetto temporale, si salta a piedi pari tutta quella gavetta che si doveva fare prima e si consente a chiunque abbia un buon talento musicale di diventare un artista di dominio pubblico e guadagnare molto in poco tempo. I “contro” appunto sono che senza quella gavetta non ricevi la formazione adeguata che ti permette a mio avviso di migliorarti e di diventare un artista completo, oltre al fatto che ci si monta la testa facilmente con l’arrivo del successo immediato e facili guadagni. Dovrebbero essere un punto di partenza, invece in molti lo considerano un punto di arrivo, infatti come possiamo vedere, gli artisti che escono dai talent e poi durano nel tempo sono pochi.

Prima di lasciarci ci potresti parlare di altri tuoi progetti?
Il 30 agosto è uscito un altro mio singolo intitolato “Night’s Forever” sulla prestigiosa label Jaywork., in collaborazione con il DJ romano Mirko Alimenti e la cantante Star Elaiza. E’ un prodotto che come stile strizza un po’ l’occhio agli anni ’90, con le attuali sonorità EDM. Ho presentato la bozza di questo progetto a Mirko e insieme abbiamo iniziato questo percorso proprio pensando a quei mitici anni dove la musica dance imperversava in tutto il mondo, il tutto condito con la splendida voce di Elisa (in arte Star Elaiza). Le premesse che questo brano possa far bene ci sono tutte, il tempo sarà galantuomo. Infine, bolle in pentola un altro brano che sto ultimando e che dovrebbe uscire il prossimo inverno, vi terrò aggiornati appena avrò ulteriori certezze, per adesso non posso spoilerare più di così…

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Vincenzo Corsini

DiscoPogo è una band italo-polacca capitanata dal tarantino Vincenzo Corsini. Dopo anni sui palchi dell’est Europa, Vincenzo ha deciso di tornare in Italia, non prima di incidere le ultime canzoni contenute nell’album Italian Job vol.I. In esse ha voluto racchiudere tutte le sue esperienze, problemi e delusioni, che risultano essere comuni a molte persone, soprattutto delle generazioni X, Y e Z.

Ciao Vincenzo, innanzitutto mi piacerebbe parlare di questa tua esperienza all’estero dove ti sei “divertito come un pazzo sul palco con pubblici via via più numerosi”…
Eh sì, fare concerti è la cosa più divertente. Per quell’ora e mezza o due su quel palco stai trasmettendo le tue sensazioni, le tue idee, i tuoi pensieri agli altri. E di rimando ricevi dal pubblico sensazioni, idee, emozioni che ti tornano indietro o amplificate o modificate. In quei momenti capisci che, nonostante radio, TV, etichette ti abbiano snobbato, quello che fai ha senso per qualcuno. L’autunno prima del COVID abbiamo suonato ben 16 concerti in due mesi, facevamo interi weekend di concerti per locali in giro per la Polonia, tra paesini e città. Dopo molti locali hanno chiuso, molti festival sono ripartiti da zero e anche noi abbiamo fatto tabula rasa tra i nostri contatti di chi aveva imparato ad apprezzarci. Purtroppo il mancato sostegno di un’agenzia o di un’etichetta non ci hanno permesso di fare poi il “grande salto”.

Per quale motivo hai deciso di fare ritorno in Italia?
La mia band, i DiscoPogo, per molti anni sono stati l’unica vera fonte di gioia vivendo all’estero. Nonostante lo standard di vita sia molto alto lì, mi mancavano molti aspetti del modo di vivere italiano. Da un lato ammetto che la tecnologia, la burocrazia, il mondo del lavoro erano a
livelli altissimi: tutto fattibile online, sanità pubblica eccellente, diritti dei lavoratori purtroppo impensabili al sud, comodità nella vita quotidiana molto avanti. Ma l’altra faccia della medaglia era che mi mancava il calore della gente, la creatività innata dell’Italia, per non parlare del cibo, del sole e del mare della mia Puglia. La testa diceva Polonia, ma la mia salute psico-fisica aveva davvero bisogno del sud. Del resto è già venuto a trovarmi un membro della band e mi ha detto che in 7 anni non mi aveva mai visto così sorridente come adesso.

Dal punto di vista musicale invece come nasci, quali sono i tuoi artisti di riferimento?
Suono in gruppi musicali da quando avevo 14 anni. Se da un lato mi attiravano le cose “di moda”, quelle mostrate da Mtv, i vari Brit Pop, Grunge, ecc. dall’altro avevo altri esempi musicali. Col senno di poi mi rendo conto di quanto abbiano influito sul mio modo di fare musica Franco Battiato e Rino Gaetano, ma anche gli altri cantautori italiani come Guccini o De André, Camerini, Fortis… Per molti anni avevo anche una specie di feticcio nei Rolling Stones, che mi hanno aperto tutto il mondo della musica anni ’60/’70. Al momento ad esempio ritengo che i Beatles abbiano dato molto più alla musica di quanto si possa pensare. Per anni, tra liceo, università e vita all’estero ho sperimentato vari generi, dal folk al prog per approdare, con gli Ossesso prima e coi DiscoPogo poi, all’idea di un “misch a misch” musicale, basato sul funk rock dei Red Hot Chili Peppers e sulla creatività degli Shaka Ponk ma cercando sempre nuove idee. Negli ultimi nostri lavori si sente molto questa costante voglia di sperimentare con attenzione e cosa riesci a trasmettere con ciò, perché è la parte più divertente del processo creativo. Nonché la più pericolosa: in radio o in TV mettono quello che sanno definire. Se fai qualcosa cui gli altri non sono in grado di dare un nome, non lo condivideranno. Vedi Frank Zappa: divenne famoso grazie a un pezzo tutto sommato “commerciale” e solo allora fu in grado di mostrare a un vasto pubblico gli altri pezzi che fino ad allora erano di nicchia.

L’ultimo lavoro dei tuoi DiscoPogo è Italian Job vol.I, vuoi parlarcene?
Ero già in procinto di lasciare la Polonia, progetto su cui stavo lavorando da tempo. E in quel tempo la nostra creatività era particolarmente attiva, scrivevamo canzoni a manetta, a mio parere più interessanti e mature di prima. Ci ho voluto versare tutte le mie sensazioni riguardanti gli ultimi anni tra COVID, problemi di lavoro, incomprensioni generazionali, guerre (quella in Ucraina la sentivamo molto vicina). Ci tenevo molto ad inciderne almeno una parte, abbiamo scelto 5 pezzi: Miss Skazzo (critica di una certa “élite culturale”), La mia canzone (dedicata a mia moglie), Italian Playa Night (canzone che critica l’attuale sistema lavorativo ma in stile Battiato, esplodendo in un ritornello da hit estiva), Dimmi che (melanconico ricordo di quello che eravamo quando volevamo cambiare il mondo) e la cover L’estate sta finendo (suonata alla maniera DiscoPogo, cioè mischiando vari generi in uno). Un po’ per scaramanzia, un po’ per ingenua speranza ho lasciato il “vol.I” nel nome: vorrei tanto riuscire a incidere i restanti 6 pezzi, cosa possibile solo se questa prima parte riuscirà finalmente a raggiungere un pubblico più ampio.

Ti definisci un “non romantico”, ma poi hai sfornato un pezzo romantico come “La mia canzone”…
Per mia moglie avevo già scritto un pezzo rock, in polacco. Il titolo è “Ona nie tańczy” e fino all’ultimo è stata la canzone con cui concludevamo i nostri concerti. Pezzo rock orecchiabile e divertente, si tratta di una risposta a quelle canzoni pop che descrivono le donne come prodotto in vendita, mentre io sottolineo che lei non si piega alle mode, ma ama andare ai festival con gli anfibi anziché mettersi in mostra coi tacchi a spillo. Per anni mi ha punzecchiato sul fatto che però l’ho scritta più di 10 anni fa, sarebbe ora di una nuova dedica, sottolineando che io sono l’antitesi della romanticità. Mentre eravamo in sala prove col chitarrista, lavorando su una nuova melodia, anche lui se ne usci con un “ma perché non scrivi un testo romantico?”. A quel punto mi venne voglia di parlare proprio del fatto di come fosse difficile per me esprimere i sentimenti che ho nei confronti della mia consorte. E lentamente il testo si è formato per come lo conosciamo oggi.

Come hai detto tu hai stravolto un classico estivo come “L’estate sta finendo”, una bella provocazione, un po’ come la pizza con l’ananas…
La copertina con la pizza e l’ananas è uno scherzo che mi hanno fatto gli amici della band, sapendo come la penso al riguardo. Ad ogni modo esprime in un certo senso il nostro modo di fare musica, quando vogliamo unire “sapori” che in teoria non c’entrerebbero niente tra di loro. Dal vivo il pubblico capisce questo mix. L’estate sta finendo non ha l’obiettivo di essere una provocazione ma un nostro modo di suonare un classico, divertendoci e non prendendoci mai sul serio. Ho parlato prima di rock, ma negli anni ho imparato ad apprezzare quella che per certi versi è la sua antitesi: la musica disco. Già nel nostro album di oltre 2 anni fa inserimmo un pezzo in stile italo disco (prima che tornasse di moda), si chiama FeliciFunk. E con questo spirito, dell’ostinarci a non vedere differenze tra i generi musicali, abbiamo approcciato il pezzo. Io stesso avevo dubbi se saremmo riusciti a suonarlo in stile DiscoPogo, ma dopo la prima volta in sala prove non ho più avuto dubbi. Dal vivo suonarla è un vero divertimento. L’inizio lento inoltre mi fa pensare che in origine i Righeira l’avessero effettivamente scritta a mo’ di ballata, aggiungendo il ritmo disco solo in seguito. Ma questo saprà dircelo solo Johnson Righeira…

Oggi imperversano i Talent, tu parteciperesti?
No categorico. Perché la nostra musica non è da primo ascolto, va riascoltata per capirla. Fermo restando l’altissima qualità di molti degli artisti che vi partecipano, hanno un minimo comun denominatore che è l’essere facilmente riconducibili a qualcosa di già conosciuto.
Noi con la nostra musica forse ci diamo la zappa sui piedi, ci allontaniamo troppo dai canoni del mercato, cosa che negli anni ’70 era apprezzata, mentre adesso è un peccato mortale da condanna a restare solo nei giri “minori”, di nicchia. Ricordo che le prime edizioni dei talent show valorizzavano ancora la diversità, l’originalità; basti pensare agli Aram Quartet o alla voce di Giusy Ferreri nei primi sui brani. Adesso invece omologazione piena, da happy meal identico in ogni angolo della terra. Gli stessi Maneskin avevano un potenziale enorme e musicalmente sono da standing ovation, ma per restare dove sono hanno scelto la strada del fare canzoni con lo stampino e guadagnare di più anziché sviluppare una propria individualità.

Prima dei saluti parlaci un po’ dei tuoi prossimi progetti?
L’unica cosa che mi manca davvero della Polonia sono i DiscoPogo, sia come musicisti, sia come amici. Non so se formerò una nuova band al momento, ma sto proseguendo con la scrittura di brani per me e di testi per la band (il processo creativo prosegue anche a distanza e anche per i loro nuovi progetti), e ho un forte desiderio di scrivere un musical o meglio una rock opera: ho avuto il piacere di lavorare in un Teatro Musicale, ho approfondito molto questo tipo di arte e da anni ho nel cassetto dei primi schizzi di Musical, che ho lasciato da parte per lavorare per le canzoni del gruppo. Comunque vada la musica non mi abbandonerà mai, così come i 5 minuti di gloria davanti a 6000 persone, come ospite di una band famosa dell’Est che mi invitò a cantare la versione italiana che feci di una loro hit.

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Dario Margeli

Dario Margeli ha parlato a Musica361 di “Posto Sicuro”, una canzone allegra, sicuramente estiva, ma che ha un significato profondo, basato su una tecnica di meditazione.

Ciao Dario, il tuo ultimo pezzo si chiama “Posto Sicuro”, vuoi parlarcene?

È una canzone allegra che parla della possibilità di “collegarci” alla gioia di vivere: per aiutarci a raggiungere questo obiettivo, la canzone è cantata in falsetto acuto per trasmettere eccitazione, come l’eccitazione per la vita. Di solito non canto note così alte, ma un giorno mentre cantavo una vecchia canzone di musica disco ho capito che suonava interessante la mia voce in quel registro.

Il titolo fa riferimento a una pratica di meditazione, uno spunto molto interessante, di cosa si tratta?

La meditazione “Posto Sicuro” è consigliata da molti psicologi. Alcuni di noi che sono cresciuti con genitori anaffettivi, con la mancanza di incoraggiamento, da adulti a volte si sentono persi. La pratica della meditazione “Posto Sicuro” cerca di allontanare quella sensazione. Devi pensare a un momento e a un luogo della tua vita in cui ti sei sentito bene e cercare di riviverlo. Stavo sorridendo quel giorno? Ero energico quel giorno? Mi stavo godendo la vita quel giorno? Le risposte “sì” ti aiutano a ricreare una sensazione migliore.

Qual è per te un posto sicuro?

Nel 1985 sono andato in campeggio in una foresta con altri bambini. Mi è piaciuto tantissimo. Ero felice. Amavo la vita. Potevo vedere le stelle di notte. Poiché ero ancora giovane, il mio cervello non aveva ancora accumulato troppe brutte esperienze. Quindi il cervello era ricettivo alla bellezza della natura che mi circondava: gli alberi, gli animali. Ora che sono adulto, a volte cerco di fare un viaggio mentale all’estate del 1985 e a quella foresta. Ho persino rivisitato fisicamente più volte quella stessa foresta in questi ultimi anni.

C’è stato un periodo in cui ti sei allontanato dalla musica, per quale motivo e cosa ti ha spinto in seguito a riprendere questa attività?

Dovevo avere un lavoro d’ufficio e guadagnare soldi per sostenere le mie spese. Fare musica non paga. Ma una persona come me che da bambino ha avuto una mancanza di affetto da parte dei suoi genitori ha un bambino interiore che vuole essere ascoltato, perché da bambino non è stato ascoltato. Ecco perché voler scrivere canzoni è naturale per me: il bambino interiore vuole essere ascoltato, quindi il bambino parla attraverso le canzoni; ecco perché, a un certo punto, nonostante le difficoltà, ho deciso di trovare di nuovo il tempo per scrivere canzoni.

Quali sono i tuoi artisti di riferimento?

Io sono il mio “riferimento”. Il “bambino interiore” vuole parlare e guarire, quindi è il “riferimento” che mi fa scrivere canzoni. Non ci sono abbastanza artisti là fuori che scrivono di miglioramento personale, auto-incoraggiamento o pensiero positivo. Penso che Joni Mitchell abbia scritto canzoni che hanno fatto sentire la sua “bambina interiore”. Inoltre cito la canzone “La Voglia Di Vivere” di Pino Donaggio che oltre ad avere una melodia che ammiro, ha queste strofe: “tra te e la vita, scelgo la vita” e “resta la voglia di vivere dentro di me / e di scoprire  tutto il mondo che c’è intorno a me ..”

Oggi imperversano i Talent, tu cosa ne pensi?

Figurati! Io che ho più di 50 anni, ho tutte le porte chiuse. Se hai oltre 25 anni non ti danno opportunità nella musica. Il mio desiderio sarebbe che ci fossero opportunità per le persone che effettivamente scrivono canzoni e hanno davvero qualcosa da dire, indipendentemente dall’età, dall’aspetto fisico e dalla moda. Non lo vedo nel mondo della musica odierno.

Prima di salutarci puoi parlarci dei tuoi prossimi progetti?

Al momento non ho il tempo materiale di fare musica, inoltre devo anche trovare il tempo per meditare, per fare esercizio. Essendo un artista autoprodotto, è difficile trovare ascoltatori. Il sogno è che qualcuno nell’industria musicale venga e mi aiuti a trovare un pubblico che voglia sentire cosa ha da dire il mio “bambino interiore”.

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Alessandro Ribetto
Alessandro Ribetto
Alessandro Ribetto, consulente finanziario con la passione per la musica, è un cantautore di Torino che a noi di Muisca361 ha parlato del suo ultimo lavoro: “Scatole di vetro”, brano che ha al centro un tema di forte attualità quale la situazione in cui si trovano bambini, donne e uomini che vivono in Paesi colpiti dalla guerra, dove la normalità è un sogno irraggiungibile, e dirsi “ci vediamo domani” è tutto fuorché scontato…

Ciao Alessandro, come è iniziata questa tua grande passione artistica?

Le mie prime canzoni erano quelle scritte sui banchi delle scuole medie e da lì ho continuato a scrivere arrivando a fare un piccolo album a 17 anni. A quell’età come tutti quelli innamorati della musica ho iniziato a fare qualche provino per i talent…

Come definiresti il tuo genere?

Io penso di fare un classico pop all’italiana, un po’ old style su alcuni aspetti che poi sono quelli che mi influenzano. Il primo album che ho ascoltato interamente è stato Squerez dei Lunapop. Ho sempre ascoltato Stevie Wonder, Whitney Houston, mi piacciono le belle voci, mi piacciono le belle melodie e mi piacciono i testi con significato, non banali.

Oltre a quelli già citati, ci sono gruppi o cantanti preferiti?  

A livello di scrittura i Pinguini Tattici Nucleari li trovo fenomenali, non hanno eguali in questo momento e dopo che li senti dici: “Caspita, ma io cosa scrivo a fare se fanno pezzi di questo livello”. Sono impossibili da imitare, è davvero molto difficile. Poi mi piace sicuramente Mengoni, Giorgia, Elisa e anche Luca Dirisio, sono andato a un suo concerto qualche anno fa e duettammo sul palco.

Il tuo singolo è “Scatole di vetro” vuoi parlarcene…

Il brano nasce dall’osservazione del contesto in cui vivono quotidianamente bambini, donne e uomini in Paesi dove c’è la guerra, ho provato a mettermi nei loro panni e a fare passare quel messaggio per cui quello che per noi è normalità noiosa per loro è qualcosa di meraviglioso cui tendere: vivono con la paura di non rivedersi più, è impossibile fare progetti a lungo termine, c’è un passaggio che dice: “Arriverà un momento per tornare a credere che non è più impossibile amarsi e dirsi non ci lasceremo mai”.

Nella canzone si sente: “I nostri sogni ormai li abbiam riposti dentro scatole di vetro”, è una visione pessimista del futuro?

È un parallelismo tra quello che viviamo noi che di solito parliamo di sogni nel cassetto, inteso come un luogo sicuro, dentro casa al riparo da intemperie e l’immagine che volevo dare di queste persone che ripongono i loro sogni in contenitori molto più fragili dove basta un niente per essere scalfiti.

In passato hai fatto i provini per Amici, cosa pensi dei Talent?

Sicuramente l’esperienza era stata molto positiva, quando lo feci io era molto particolare perché arrivavi e sceglievi una canzone su una lista di 100 e venivi messo insieme ad altre persone che avevano scelto tutte lo stesso brano e di conseguenza la voce che colpiva di più andava avanti. Mi ricordo che c’era Vessicchio e l’avevo trovato molto meritocratico a differenza di altri che invece preferivano parlare di storie tristi.

Dei talent hai già parlato, di Sanremo cosa ne pensi?

Sono innamoratissimo di Sanremo, sono un fan sfegatato, per me è fonte di grande emozione. D’altro canto non posso partecipare a Sanremo Giovani per una questione anagrafica, mi piace molto il taglio dato da Amadeus perché è la modernità e ha dato spazio a tutta la musica. Per quanto riguarda Sanremo Giovani non sono d’accordo con l’abbassamento dell’età richiesta per partecipare, dovrebbe riguardare i giovani in termini di carriera, non in termini anagrafici: produrre un brano costa e non tutti i ragazzi di 18/19 anni hanno la possibilità di spendere soldi per produrre un brano e dedicarsi totalmente alla musica.

Prossimi progetti?

Io lavoro nel mondo della Finanza ed è un lavoro che mi appaga tantissimo e mi piace, la musica è un amore, quindi è qualcosa di ancora più forte. Voglio continuare a farla con amore ed è talmente tanto bello farla che non necessariamente ci devono essere delle aspettative dietro, quindi i prossimi progetti sono fare musica sempre più bella e fare in modo che venga ascoltata il più possibile. In autunno uscirà un pezzo che ho scritto per la mia ragazza, tra l’altro lei canta molto meglio di me: è lei che mi ha riavvicinato alla musica.

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Luciano Nardozza
Foto: Ufficio Stampa

Noi di Musica361 abbiamo intervistato Luciano Nardozza per parlare del suo nuovo brano “Che ne sai tu?“, tratto dal concept album “L’orizzonte degli eventi” è un pezzo interamente scritto, arrangiato e prodotto dall’artista: un invito a non prendersi troppo sul serio considerando che conoscere davvero qualcuno è un’illusione.

 

Ciao Luciano è uscito “Che ne sai tu?”, vuoi parlarcene?

Il pezzo fa parte di un album che si chiama “L’orizzonte degli eventi” e parla di ignoto e buchi neri, il brano “Che ne sai tu?” riporta una domanda che ci poniamo spesso: “Conosciamo le persone che ci sono accanto o sono esse stesse dei buchi neri?”

Tu dici che siamo vittime di “illusioni ottiche”, ma anche di illusioni social?

Assolutamente d’accordo, illusioni ottiche, illusioni social, illusioni su vari livelli, tanto che nel videoclip io scherzo con queste illusioni incarnando vari personaggi così che si può pensare che la realtà sia diversa da come ci appare. In generale è un invito a non fidarsi troppo delle proprie percezioni.

Il brano è anche un invito a non prendersi troppo sul serio, c’è qualcuno in particolare che si prende sul serio?

Non credo che ci siano categorie specifiche, è il risultato di questo mondo social in cui ci prendiamo tutti troppo sul serio. Basti pensare a quando facciamo una foto o un video, ci chiediamo se postarla o no, cosa penseranno di noi gli altri, quale impatto avrà, quale ritorno di immagine. Tutte queste domande sono nella direzione del prendersi troppo sul serio.

“Ciò che non devi sapere”, il tuo lavoro precedente. è unico nel suo genere, primo disco concepito come un manuale di psicologia sociale, volto a illustrare le tecniche di ingegneria del consenso usate dai media e istituzioni per indirizzare talvolta l’opinione pubblica…

Prima di fare il musicista io ho conseguito una laurea in lingue e letterature straniere con un percorso in psicologia. Mi ha sempre interessato il modo in cui la psiche sia direzionabile e manipolabile dall’esterno. Lo vediamo a tanti livelli, dal marketing alla comunicazione istituzionale, basti pensare alle campagne elettorali o all’immagine dei partiti dominanti, in modo che non emerga la realtà, ma una realtà possibile. Da qui è nata l’idea di fare un concept album in cui ad ogni capitolo parlo di una tecnica specifica di manipolazione, basti pensare al testo Overton, dedicato al sociologo Joseph P. Overton, che aveva asserito che all’opinione pubblica si può fare credere di tutto purché la si indirizzi in sei finestre. Io ad esempio nella canzone prendo il cannibalismo come idea tabù assurda, e poi nel video non solo diventa appetibile, ma addirittura si denuncia chi non la pratica.

Qual è il tuo genere, e quali sono i gruppi di riferimento?

Il mio genere è definito come una specie di alternative rock, a me piace chiamarla musica d’autore, musica pop, possiamo chiamarla come vogliamo. I miei riferimenti sono abbastanza strani perché io vengo dal rock, dall’heavy metal, poi ho studiato jazz, colonne sonore, quindi sono molto variegati. Sono appassionato di colonne sonore: Ennio Morricone, Nicola Piovani, così come della musica etnica mediorientale e dell’heavy metal e del rock, o in Italia, di Franco Battiato. Non dovendo rispondere ad esigenze commerciali, troverete contaminazioni dettate solo dalla creatività e non da altre ragioni.

Dei Talent cosa ne pensi?

Non li seguo tanto, ma si dà l’idea sbagliata di come dovrebbe essere vissuta la musica e l’arte, soprattutto in quelli in cui c’è una competizione e una selezione iniziale del tipo “Dentro o fuori”, perché è impossibile definire il talento in tre minuti e stroncare o avviare una carriera in quel modo, proprio perché non funziona così: l’arte non risponde a quei criteri, secondo me lì si trova di tutto tranne l’arte.

L’ultimo singolo fa parte dell’album “L’orizzonte degli eventi”, un progetto che ti ha impegnato molto…

È il lavoro che ultimamente sto promuovendo anche se la parola diffondere è più bella. Ci tengo tantissimo, poi tutti i miei dischi vengono da un vissuto interiore sentito, travagliato, parlano di me anche se con metafore varie. L’orizzonte degli eventi è questa espressione bellissima che indica questa linea sottile dalla quale non torni più indietro, situazione che ognuno di noi può sperimentare dopo la perdita di una persona amata, un lutto, una separazione, la fine di un’amicizia.

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Four Seasons Quintet 1

 

È in rotazione radiofonica “Palomar”, il nuovo singolo dei Four Seasons Quintet: una contaminazione tra swing e pop contemporaneo che racconta di un incontro casuale e straordinario con il re dello swing, Benny Goodman. Da lì, come per “magia”, il quintetto si ritroverà trasportato alla notte del 21 agosto 1935 in cui si narra che proprio al Palomar Ballroom, lo storico locale situato a Los Angeles, Benny Goodman con la sua orchestra diede vita alla swing era. Noi di Musica361 abbiamo sentito la cantante Daniela Tenerini…

 

Ciao Daniela, PALOMAR presenta un video molto suggestivo, dove avete ricreato le atmosfere di quei tempi e di quei luoghi…

Sì, noi ci rifacciamo a quelle atmosfere, suoniamo insieme dal 2015 ed è una cosa che ci caratterizza e con Palomar abbiamo voluto fare un omaggio al Re dello swing che è Benny Goodman

Il brano è quasi una favola, parla, come hai anticipato, dell’incontro con il Re dello swing Benny Goodman, parliamone un po’ per gli amici di Musica361…

È un grande maestro dello swing, un grande clarinettista che è stato definito Re dello swing dal suo batterista Gene Krupa. Si narra che quella notte del 21 agosto del 1935 la band veniva da un tour della costa occidentale dell’America e chiudeva proprio al Palomar: non era andato benissimo e allora quella sera si decise di proporre degli arrangiamenti dal ritmo un po’ più “dondolante” e da quel momento la pista si riempì. Così è nata l’era dello swing, che ha reso più frizzante quello che era un jazz più puro.

La vostra intenzione è quella di unire innovazione e tradizione, ma com’è conciliare swing e pop contemporaneo?

Sì, uniamo le sonorità classica del pianoforte, della tromba con suoni più elettronici e questo è avvenuto non solo con Palomar ma anche con le produzioni precedenti; mentre nei live accostiamo i grandi classici internazionali alle canzoni attuali (ma rivisitate in una veste vintage) anche per accostare i giovani a questo mondo

Altra suggestione è la Dolce Vita…

Parte tutto dalle mie caratteristiche timbriche e sceniche, le mie movenze richiamano quel periodo e le dive anni ’50, quindi siamo partiti con questo mood che deve essere fatto di raffinatezza, ma allo stesso tempo di semplicità: tutti i nostri arrangiamenti hanno questa caratteristica, per questo ci rifacciamo al periodo della Dolce Vita che è l’emblema dell’eleganza

Siete “fratelli”, ma avete gusti musicali diversi, il tuo in particolare qual è?

Eravamo amici da tempo ma avevamo altre formazioni e ognuno ha la sua storia: passiamo dal jazz al soul al funky e i nostri arrangiamenti risentono di diverse storie a livello musicale. La cosa fondamentale era trovare un sound originale, che ci caratterizzasse. I miei riferimenti sono Etta James, Ella Fitzgerald, mostri sacri del genere… per quanto riguarda il panorama italiano: la Vanoni, Mina, Mia Martini. Tanti riferimenti, ma il lavoro più grande era trovare un mio modo di esprimermi, l’ho trovato anche grazie al lavoro fatto insieme ai miei musicisti che mi danno una grande possibilità di esprimermi.

Avete partecipato a numerosi eventi, trovate qualche criticità nel fare musica in Italia?

Quando suoniamo nelle piazze difficilmente troviamo un pubblico ostile, lo swing avvicina le persone, il pubblico ci accoglie sempre con grande entusiasmo.

 

Biggie Size 1
Foto: Ufficio Stampa

Il rapper torinese Biggie Size, con rime ben articolate e marcate, lamenta il fatto che i concetti base della vita, come il rispetto e la lealtà, siano virtù rare da trovare nella società odierna. Da questo sfogo nasce “POI NON È VERO”, il suo ultimo brano.

“Poi non è vero”, il tuo nuovo brano parla della mancanza di principi ai nostri giorni, un tema molto importante considerata anche la tua giovane età, vuoi approfondire?

Certo, io ho 27 anni e quello che sto notando tra i miei compagni è la mancanza di quelle che sono le nozioni base della vita, non so se per una questione di social o altro, ma ho notato che sono tutti più egoisti rispetto a un tempo, almeno per quello che riesco a vedere io. “Poi non è vero” è nata proprio da questo sfogo verso queste persone, allora ho detto: lo butto in una canzone vediamo se qualcuno ci si rispecchia.

Questa mancanza secondo te ai nostri giorni è amplificata dai social media?

Sicuramente, le persone possono dire quello che vogliono senza avere delle ripercussioni immediate e questo è un motivo scatenante.

Tu che rapporto hai con i social?

Io li utilizzo come mezzo di comunicazione, ma sono uno che preferisce stare nella vita reale, sono vecchio stile, un po’ fuori dal coro rispetto alla  mia generazione.

Dal punto di vista stilistico notiamo rime ben articolate e divertenti giochi di parole, in pieno stile hip hop che è la tua cultura, ma quali sono i tuoi punti di riferimento?

A livello Rock sono sicuramente i Led Zeppelin, poi gli Ac/Dc e i Pink Floyd: molte ispirazioni sono state prese da lì

Oggi imperversa la Trap, che però si è attirata anche parecchie critiche, tu cosa ne pensi?

La musica deve prendersi una parte di responsabilità, perché principalmente è la musica che influenza le generazioni. Ci sono tanti artisti che valgono, come lo stesso Sferaebbasta e Lazza o Geolier, ma poi ce ne sono tantissimi che hanno testi vuoti, oppure quel poco che dicono sono cose che non fanno bene ai ragazzi.

La canzone nasce dalla tua esperienza diretta con la realtà che ti circonda, cosa vede un ragazzo del 1997 attorno a sé?

C’è più dispiacere, io vedo che i ragazzi di oggi sono molto più svegli, alle cose ci arrivano prima anche per una questione tecnologica e per le informazioni dalle quali vengono bombardati, ma questa comodità sembra che li abbia svogliati e io vedendo queste persone da una parte mi arrabbio, però dall’altra parte dico: “Ragazzi, se non vi muovete voi…”, io più che dare uno sprone non posso fare provo più una delusione e mancanza di speranza

Cosa ne pensi dei talent?

Il Rap aveva già i talent: aveva le jam, i contest, free style, tutte queste robe qua, ma io non c’entro proprio niente con talent come possono essere Amici e XFactor, io sono un purista: se un Fabri Fibra volesse andare ad Amici, per esempio, a fare pubblicità e cantare le sue canzoni, dico “Ok!”, ma non un emergente come potrei essere io. Poi io faccio rap crudo, quindi sarebbe difficile portarlo in qualche talent show.

Programmi per il futuro?

Sicuramente a dicembre usciremo con delle belle tracce, abbiamo un EP già pronto e un’altra decina di tracce. Se la preoccupazione dei fan è di rimanere senza musica non ci sarà questo problema, anzi dovranno anche scegliere bene.

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