Claudia D’Ottavi: “Sono una funambula, perennemente in equilibrio, tra musica e fotografia che hanno la stessa ragione di essere: sono il mio modo di comunicare, la mia voce interiore e pertanto irrinunciabili”

Vedere la Musica: Claudia D'Ottavi tra Musica e Fotografia
Vedere la Musica: Claudia D’Ottavi tra Musica e Fotografia – Matto Come Un Cappellaio – Opera Fotografica Surreal Fine Art

Claudia D’Ottavi è l’esempio lampante di come l’arte non conosca confini e separazioni.

Per lei la musica, il canto e la fotografia sono ragioni di vita, amiche e compagne che determinano e scandiscono ogni giorno della sua vita.

Claudia è una “vera” creativa che non si è mai neanche posta il problema di dover scegliere.

Alla domanda diretta di quale sia il suo mestiere, lei risponde senza esitazioni, che lo sono entrambe, allo stesso modo.

Lei è argento vivo e nella nostra chiacchierata, lo sento scorrere.

Questa è la bellezza, la forza vera di ogni arte, che tracimando rende più fertile e bella la vita di tanti.

Claudia parlami di te…

Sono nata a Roma il 23 aprile dell’82 e da sempre ho amato la musica e il canto. Ho fatto il liceo socio pedagogico, mi sono iscritta all’università, ma nel frattempo, facevo qualche seratina qua e là.

Sempre seguendo l’istinto, andai ad un’audizione per Notre Dame de Paris, di Riccardo Cocciante dove mi presero per la parte di Fiordaliso, l’antagonista di Esmeralda e dal 2002, per sette anni è stato il mio mondo all’interno della produzione facendo anche altri musical.

Debuttai a soli diciotto anni, un ruolo complicato per la mia età, ma nonostante le difficoltà e il lavoro, la ricordo come un’esperienza incredibile con Riccardo Cocciante che mi ha davvero insegnato moltissimo.

Cosa ti ha insegnato quell’esperienza così importante?

Mi ha insegnato a vivere con disciplina, seconde regole e con applicazione e studio. Lasciando che la vita e l’arte si mescolino in un’unica energia creativa.

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No WiFi

Una carriera che ti ha vista oltre che protagonista di musical, anche parte del cast di Domenica In, corista del Maestro Mazza in Mezzogiorno in famiglia. Com’è entrata nella tua vita la fotografia?

La passione per la fotografia nasce a teatro, dove passavamo tanto tempo con tutta la crew.

C’era una truccatrice che con una macchinetta molto semplice, ancora col rullino, ci scattava foto artistiche che, ovunque fossimo in tournée, stampava ogni settimana per poi attaccarle sul container dove ci truccava.

Questo fece scattare in me qualcosa, al punto che con la prima paga, a Genova dove recitavamo, comprai la mia prima macchina fotografica.

Per istinto e da autodidatta, ho cominciato a fare fotografie lasciandomi guidare da quello che sentivo.

Solo molto dopo ho fatto dei corsi e studiato per approfondire, lavorando soprattutto a fianco di professionisti dai quali ho cercato di imparare.

Non so neanche come e quando esattamente, ma poco alla volta fotografando prima gli amici, poi gli amici degli amici, col passaparola, mi sono ritrovata a farlo per mestiere.

In realtà la fotografia non mi ha lasciato scampo, perché mi emozionava mi costringeva ad osservare le piccole cose che avevo intorno. La fotografia mi aiutava a soffermarmi sui dettagli. Da lì sono partita per alzare poi lo sguardo e vederne anche l’insieme.

Vedere la Musica: autoritratto
Vedere la Musica: Claudia D’Ottavi tra Musica e Fotografia – Perfettamente Imperfetta (Autoritratto)

La tua vita è sempre in “bilico” tra musica e fotografia o l’una, ha preso il sopravvento sull’altra?

Sono una funambula, perennemente in equilibrio, tra musica e fotografia che hanno la stessa ragione di essere: sono il mio modo di comunicare, la mia voce interiore e pertanto irrinunciabili. Sono la mia essenza.

Come cantautrice, ho da poco pubblicato un singolo Turn You On e il mio nome d’arte è Mia Elison. Sono Claudia D’Ottavi quando firmo i miei progetti fotografici e le mie mostre.

Che fotografa sei?

Passionale ed istintiva: l’amore per la fotografia, mi è letteralmente scoppiato tra le mani diventando un lavoro, anche se parallelamente ho continuato a cantare.

Come fotografa sono chiamata spesso per artisti, in teatro, per concerti o eventi musicali per i quali credo di avere una particolare predisposizione.

So perfettamente cosa significhi stare su un palco e sono molto attenta a cogliere particolari che possono raccontare nel modo giusto quel determinato momento.

L’aver recitato e cantato mi ha affinato sicuramente l’occhio e ancora una volta, conferma come non ci siano separazioni, ma un’elevazione alla massima potenza quando l’arte si esplicita in diverse discipline.

Ho imparato a coniugare queste due passioni che sono l’una funzionale all’altra, perché anche la musica ha bisogno di immagini.

Tutto funziona a braccetto ormai: musica, video e foto che con l’avvento dei social, viaggiano molto velocemente.

Vedere la Musica: il rosso dell'anima
Il Rosso Dell’anima progetto fotografico contro la violenza sulle donne. Un racconto ritratto da Claudia attraverso le parole della protagonista che ce l’ha fatta a riemergere dall’abisso

Fai un identikit di te…

Nata con l’attitudine di aggiungere alle mie foto, la musica che ho ascoltato, i palchi che ho calcato le persone che ho amato. Mi rappresenta.

Qual è la tua “firma”?

Mi sono resa conto che nel ritrarre le persone, non amo particolarmente i ritratti sorridenti. Se dovessi scegliere, i più intensi, sono quelli dove sono seri, con luci e ombre. Questo mi muove dentro qualcosa, mi scava.

Se sorridono, non mi arriva allo stesso modo. Probabilmente, viene fuori un po’ di quella timidezza che ho combattuto da ragazza, con la quale, inconsapevolmente torno a fare i conti. La provo a nascondere, ma c’è.

Le mie fotografie apparentemente semplici hanno in realtà uno studio, una composizione che parte dallo stesso che farebbe un pittore per dipingere. L’impressionismo, il surrealismo sono fonte d’ispirazione.

Se sei libera di fotografare, cosa attira la tua attenzione?

Le persone, di qualunque età e con tutte le loro imperfezioni. Ritrarle mi restituisce il senso della realtà.

Come ci fai “vedere” la musica?

Mi piacciono molto le silhouette, un viso illuminato a metà, con una luce roca che è poesia, per un’intimità speciale.

Se la musica è rock, è il movimento che cerco. Non scatto subito ma cerco di studiare attentamente.

Non voglio fotografie banali, ma arrivare al cuore dell’artista o della band.

Credi che arriverà un momento in cui dovrai scegliere?

Prima della pandemia, pensavo che la musica avrebbe potuto diventare solo un hobby, ma poi le cose sono cambiate e l’isolamento mi ha “rovistato” dentro al punto che ho sentito l’esigenza di scrivere una nuova canzone, Turn You On il singolo uscito il 3 di settembre.

Al momento, più che divisa, mi rendo conto che l’una va di pari passo con l’altra. Sono funzionali e non riesco ad immaginare di separarmene.

Vedere la Musica: Claudia D'Ottavi tra Musica e Fotografia 1
Musica e Fotografia – Live (Foto © Roberto Scorta)

Claudia D’Ottavi durante un evento musicale dove si esibiva, incontra lo sguardo del fotografo sottopalco che non riesce a toglierle l’obiettivo di dosso.

Claudia mi confida nel salutarci, che da quel fotografo non si è mai più separata. Un amore a prima vista per Claudia e Simone Orgitano che oggi sono felicemente sposati grazie alla complicità della musica e della fotografia.

E vissero felici e contenti…

Cristiana Fiorini la fotografa “rubata” alla filosofia

Invito al Viaggio: Cristiana Fiorini cittadina del mondo
Invito al Viaggio: Cristiana Fiorini cittadina del mondo – Pre-Wedding, (Roma 2021)

Cristiana Fiorini, romana per nascita, cittadina del mondo per scelta. Per lei l’andare fa rima col fotografare, ovunque. Una bella persona che ha sempre fatto della libertà di scelta la propria filosofia di vita. Parlo di filosofia non a caso, perché Cristiana si è laureata a pieni voti in filosofia.

Questo studio appassionato ha impresso, in tutto il suo andare, nell’incontro con le persone, le loro vite e la loro cultura una “forma mentis” per comprendere oltre che vedere. Dinamica e istintiva, non perde mai di vista quale sia la sua meta, come una vera viaggiatrice, orienta e progetta quello che il cuore le suggerisce.

Nella sua fotografia c’è l’essenza di questa sua visione del mondo, della sua curiosità e la voglia di imparare. Oggi è tornata “a casa”, ma sono certa che le sue valigie sono sempre pronte e, come dice lei, si può viaggiare anche con la fantasia, anche uscendo di casa in un particolare che ci spalanca le porte dell’immaginazione.

Cristiana e la fotografia…

Ho sempre avuto un’inclinazione naturale sia per la fotografia e per l’andare lontano da casa. Da ragazzina mi accaparravo qualunque macchinetta trovassi in giro, per fotografare qualunque cosa.

In qualunque momento e ovunque, avevo sempre con me una macchina fotografica e sia che fossi in giro a fare la spesa, o qualunque altra cosa, non mi facevo sfuggire la possibilità di “fermare” un’immagine.

Invito al Viaggio:Solitary couple, Sydney 2016
Solitary couple, Sydney 2016

Cristiana, una fotografa rubata alla filosofia?

Dopo il liceo scientifico, mi sono iscritta a Filosofia a Roma, per poi fare un anno in Spagna in Erasmus, dove sono anche tornata a studiare fotografia per moda e pubblicità, l’unica che non ho mai approfondito e non mi ha mai appassionata.

In seguito, un periodo a New York, poi la specialistica a Roma, dove avevo già avviato molto bene il mio lavoro, ma il bisogno di partire ancora una volta, ha avuto il sopravvento.

Prima l’Indonesia e poi l’Australia, a Sidney, dove pensavo di fermarmi cinque mesi e, invece, sono stata cinque anni. La scelta è stata dettata dalla voglia di approfondire l’inglese e fare quello che mi appassionava davvero: la fotografa.

Ho scelto l’Australia perché era vicina all’Indonesia, dove mi trovavo e in più mi offriva delle buone prospettive lavorative con il clima ideale per me, con il mare, che amo e l’estate per otto mesi l’anno.

Invito al Viaggio: cittadina del mondo
Invito al Viaggio: Cristiana Fiorini cittadina del mondo – Teatro dell’ Opera di Roma, 2014

In quale direzione è andato il tuo lavoro in Australia?

Tieni conto, che qui a Roma, ho lavorato tra gli altri anche al Teatro dell’Opera di Roma e la mia professione era già ben avviata. A Sidney ho ricominciato, passando per quella che è la mia passione, la street photography, approdando poi alla fotografia un po’ più commerciale come la fotografa d’interni, food ed eventi, lavorando davvero tanto grazie anche a quella che credo sia la migliore pubblicità: il passaparola.

Da Sidney a Roma: quando e come sei tornata a “casa”?

Per caso, ancora una volta. Era un po’ che stavo pensando di fare ritorno in Italia, ma non trovavo mai di fatto il momento giusto per prendere una decisione, anche per il lavoro, che, come ho detto, mi dava davvero tanto.

Ero a Roma, per una lunga vacanza come ogni anno, quando è scoppiata la pandemia, ho spostato la partenza e quel viaggio di ritorno non l’ho mai più fatto. A quel punto ho avuto, purtroppo, anche il tempo di ragionare con calma sul mio futuro, prendendo una decisione che rimandavo da un po’.

Fortunatamente il mio compagno era in Australia e ha potuto occuparsi del trasloco e di tutte le pratiche necessarie. Ora Gustaf, che è nato in Sudafrica, ma ho conosciuto in Australia, vive con me a Roma e continua a seguire il suo lavoro a Sidney, ben felice di vivere qui in un paese che ha sempre amato.

Io, come sempre, ho ricominciato da capo e non so se sia solo fortuna o forse perché mi do da fare, ma sono ripartita alla grande.

Invito al Viaggio: James Cameron
James Cameron, inaugurazione della mostra “Challenging the Deep”, Australian National Maritime Museum, Sydney, 2018

Fotografa “rubata” alla filosofia…

Ho sempre seguito le mie inclinazioni naturali sia per lo studio che per il lavoro. Sono convinta che tutto abbia un denominatore comune: l’estetica, la filosofia del linguaggio e la comunicazione, che mi hanno appassionata da sempre, mi hanno dato una “forma mentis” che mi ha aiutato molto e guidata in tutto il mio percorso lavorativo.

Mi ha dato occhi per osservare andando più a fondo, della sola apparenza. Credo che ci sia una profonda connessione anche con la mia voglia di viaggiare, affamata come sono di comprendere usi, costumi e tradizioni, di popoli lontani.

Ho sperimentato anche un lavoro propriamente legato ai miei studi, alle risorse umane, ma proprio non faceva per me facendomi sentire in prigione.

Oggi sono felice di essermi laureata in filosofia, che per carattere e passione, ho concluso con ottimi voti ricevendo anche la proposta di un impegno accademico al quale ho rinunciato. Ho fatto la scelta che sentivo giusta per me e rifarei di sicuro ancora.

Come ti definiresti? Qual è il viaggio che facciamo con te?

Spontanea, le mie foto non sono studiate a priori, mi piace muovermi con discrezione. Voglio saper cogliere l’essenziale senza farmi notare. Ho una particolare attenzione alla composizione della fotografia.

Quando si tratta di lavoro, ti rispondo le metropoli, il dinamismo, il loro movimento, il caos frenetico e scatti veloci. Quando si tratta di fotografia personale e per puro piacere, sono gli spazi vuoti, i silenzi e il più delle volte una sola figura o due piuttosto solitarie: fotografie dell’assenza.

Il mare. Tutto questo in netto contrasto con i bombardamenti mediatici che hanno reso la nostra quotidianità un’esposizione continua e spietata. A livello lavorativo sono molto versatile e forse, è proprio la mia caratteristica: il dinamismo.

Invito al Viaggio: Cristiana Fiorini Epifanio Gioielli, Roma 2021
Epifanio Gioielli, Roma 2021

Quando guardi nell’obiettivo cosa cerchi?

Prima lo scatto lo vedo nella testa, lo immagino, ne immagino la composizione. Prima di guardare nell’obiettivo, penso alla sua composizione e nel caso ci sia una persona, cerco di entrare in empatia di comprenderla e agganciarla emotivamente. Questo dettato proprio dalla mia istintualità, che prevale sempre.

Cosa chiedi alla fotografia?

La fotografia mi ha “salvata” la vita dandomi la possibilità di trovare la mia direzione senza cercarla regalandomi tanta libertà. Posso fare questo lavoro ovunque e con chiunque.

Alla fotografia chiedo di farmi viaggiare ancora tra tanti luoghi o scenari diversi, che non necessariamente devono essere lontano.  Basta anche poter fare un lavoro nuovo ogni giorno, con persone diverse, senza fare grossi spostamenti si può viaggiare con la fantasia.

La fotografia mi regala giorni mai uguali, tutti da scoprire e da vivere.

Invito al Viaggio: Cristiana Fiorini cittadina del mondo Cena di Natale di Google, Sydney 2017
Invito al Viaggio: Cristiana Fiorini cittadina del mondo Cena di Natale di Google, Sydney 2017Cena di Natale di Google, Sydney 2017

Ciao Cristiana, sei stata una bella scoperta e parlando con te, ho sentito anche il rumore e il profumo di quel mare che ami tanto, quello dell’Australia che è stata per tanto tempo la tua casa.

Nella tua limpida semplicità, c’è racchiusa tutta la tua filosofia di vita e la fotografia “dell’assenza” dei vuoti, ti racconta meglio di qualunque parola.

Grazie per avermi concesso il piacere di viaggiare con te, perché è vero, lo si può fare anche stando fermi.

Daniele Venturelli, il “velocista” della fotografia

Invito al Viaggio: Daniele Venturelli, fotografo delle star
Milano 22 Settembre 2017 : Carla Bruni, Claudia Schiffer, Naomi Campbell, Cindy Crawford and Helena Christensen sfilata Versace Milano Fashion Week Spring/Summer 2018 (Photo by Venturelli/WireImage,)

Daniele Venturelli è il fotografo delle star e se potessimo nasconderci in una delle sue tasche, avremmo accesso ai parties più esclusivi in tutto il mondo. Ha un carattere risoluto e lo “scatto” da velocista, quello che per un fotografo come lui, può fare la differenza.

Ribelle quanto basta, lascia la scuola dopo la terza media per lavorare in una tipografia avendo ben chiaro quale fosse il suo obiettivo: farsi strada, raggiungere una sicurezza economica con un lavoro che sì, lo rendesse felice, ma senza perdere di vista il bisogno primario che da ragazzino “affamato” e voglioso di fare, aveva chiaro: il denaro non è tutto, ma aiuta.

Nessun tentennamento per lui, ma la caparbietà di chi crede in sé stesso, o come ama definirla, anche una buona dose di incoscienza. Per dieci anni è stato il fotografo del Pavarotti & friends, dove ha fotografato tutti i più grandi: immagini e ritratti che oggi a distanza di anni, hanno tutta quella magia e quella forza che il Maestro aveva generosamente speso per quell’evento famoso in tutto il mondo e che Daniele Venturelli ha “fermato” regalandoci ricordi indelebili.

Daniele Venturelli, fotografo delle star (credo che sarebbe più semplice elencare chi non hai fotografato). Tra i tanti, chi ha lasciato un segno indelebile nella tua carriera?

Sarà che sono stati gli inizi, ma tutto quello che ho fatto con Luciano Pavarotti mi ha segnato moltissimo. Il Pavarotti & friends, che ho seguito per tutte le dieci edizioni fino all’ultima del 2003, è stata una vera fucina di creatività, bellezza, improvvisazioni: tante cose davvero interessanti e speciali per un evento benefico a scopo umanitario di fama mondiale. Ho in archivio, una collezione di ritratti, chiacchiere, sorrisi, momenti rubati, duetti che appartengono ormai alla storia.

Fotografo per caso o vocazione?

A sette otto anni ho detto a mia mamma che avrei fatto il fotografo e come vedi, avevo ben chiaro il mio futuro. Oltre alla fotografia mi ha sempre intrigato anche la tecnologia e ho unito queste passioni che sono, a mio parere, l’una fondamentale per l’altra.

La mia era una famiglia molto semplice e terminate le medie sono andato a lavorare in una tipografia, per soddisfare quella “fame” d’indipendenza e la voglia di sicurezza economica che non avevo mai avuto.

Sono un autodidatta in tutto e per tutto, qualunque cosa l’ho realizzata da solo, con una grande volontà e una buona dose di incoscienza. Quando andavo in giro con gli amici, non avendo una macchina fotografica, utilizzavo quella degli altri.

Quando finalmente mi licenziai dalla tipografia, con i soldi della liquidazione, acquistai la mia prima macchina fotografica. Da lì, ho cominciato a lavorare ed investire nel mio lavoro, realizzando i miei progetti.

Invito al Viaggio: Daniele Venturelli, fotografo delle star
Pavarotti & Friends

Quali sono stati i tuoi esordi come fotografo?

Ho iniziato con lo sport, perché quello che avevo intuito da subito, era che dovessi seguire un filone; ho cominciato con le partite di calcio, poi a seguire Alberto Tomba che andava forte in quel periodo e la Formula 1, visto che l’avevo vicino a casa. Pian piano, fatalità o fortuna, sono iniziate le collaborazioni.

Da allora devo ammettere, che è il lavoro a cercarmi. Non so cosa voglia dire andare in giro a cercare committenze e quando mi chiedono il mio portfolio, mi stresso, faccio fatica. Preferisco dire: cominciamo, poi mi dirai cosa ne pensi. Lavoro con committenze esigenti ed esclusive come Bulgari, Gucci.

Eventi importanti, come Venezia, che comincia tra poco, dove ho i miei accrediti da sempre. Mi cercano direttamente o contattano la Getty chiedendo espressamente di me.

Qual è la parte più difficile di questo mestiere?

Abituarsi alle pause, capire che questo lavoro è imprevedibile. Accettare che ci siano periodi dove stai venti giorni senza fare una foto. Questa, per me, è stata la cosa più difficile: imparare a stare tranquilli sapendo sfruttare le pause.

I primi tempi mi dava ansia, oggi ovviamente non più su Getty ho un nutrito archivio che ovviamente, mi mette tranquillo.

La tua “mission” oggi qual è?

Cerco di fare delle belle foto che sia vendibili, non solo tre scatti, ma mille e tutti vendibili, continuo fare i conti con la realtà a tenere i piedi piantati per terra, come quando ero ragazzino e volevo costruirmi un solido futuro.

Questo è un lavoro costoso per il quale non si finisce mai di spendere ed investire.

Non amo particolarmente le mie fotografie, sono convinto che diventeranno belle davvero quando avranno il sapore delle foto perdute.

Adesso, quando mi capita di vedere le fotografie in bianco e nero di un festival degli anni passati, trovo che abbiano un sapore, un’allure, che probabilmente nella contemporaneità non avevano. Non so se le mie fotografie si possano definire artistiche, ma in fondo lo spero.

Beverly Hills, California 5 Gennaio 2020: Brad Pitt 77° Golden Globe Awards
Beverly Hills, California 5 Gennaio 2020: Brad Pitt posa nella sala stampa del 77° Golden Globe Awards al Beverly Hilton Hotel (Photo by Daniele Venturelli/WireImage)

Per puro piacere, cosa ti piace fotografare?

Le persone, più di tutto. Sono sempre e comunque gli uomini e le donne, ovunque, ad attirare la mia attenzione. Mi piace viaggiare con la mia famiglia e abbiamo fatto viaggi molto belli, dall’Alaska, al Canada, gli Stati Uniti e fino all’anno scorso, avevo un’attrezzatura fotografica solo per i miei viaggi, personale.

Chi o cosa è stato fondamentale in questo tuo percorso?

La mia famiglia, sicuramente che mi ha lasciato libero di lasciare la scuola e cercare la mia strada. Per il resto è stata una progressione che mi sono fatto da solo, non sono mai stato l’assistente di nessuno; ho collaborato all’inizio, solo per avere gli accessi agli eventi sportivi, ma è durata ben poco.

Mi sono sempre mosso da solo e in assoluta autonomia. Sono sempre stato attento alle fotografie che avevano buone potenzialità e valore commerciale, curando il personaggio: per esempio se vedevo Schumacher che si avvicinava alla moglie, sapevo che quella foto avrebbe potuto interessare non solo le riviste sportive, ma anche riviste diverse, quindi, cercavo di trovare le foto giuste, esercitando un’attitudine, probabilmente innata, di anticiparle.

Ti si può definire un autodidatta?

Autodidatta in tutto e per tutto, un istintivo. Mi ha aiutato molto la mia passione per la tecnologia che ha sempre avuto un ruolo importante. Il primo Mac, l’ho comprato nel ’94 e quelle macchine parevano infernali a quei tempi, si bloccavano ogni due per tre, bisognava sapere usare i modem e bene.

Mi sono sempre documentato e questa preparazione, che mi facevo da solo, è stata la mia forza. In quegli anni lavoravo tanto con la Germania, ma se avessi solo fatto le fotografie senza essere in grado di spedirle alla redazione velocemente, non sarebbe servito a nulla.

Pavarotti & Friends
Pavarotti & Friends

Il mio essere istintivo e veloce, mi ha dato una marcia in più, quella che serviva e serve per stare sul pezzo, arrivare per primi.

Autodidatta e “velocista” della fotografia…

Mi piace: velocista perché la foto compongo in macchina, mentre molti la fotografia la fanno dopo a computer. Per esempio, sul red carpet, lavoro con la macchina cablata e le fotografie arrivano direttamente in ufficio per il lavoro degli editor e lanciate subito dopo.

Anche ad un party, ho il trasmettitore in tasca e devono arrivare prima di tutte le altre: è questo a fare la differenza. Sono sempre stato all’avanguardia e già vent’anni fa, spedivo già le foto così, tac.

Per poterlo fare, bisogna avere occhio e cogliere al volo l’immagine giusta anticipandola, bisogna saper settare le macchine e lavorare con estrema sicurezza.

Quando guardi nell’obiettivo, cosa cerchi?

Cerco l’armonia del corpo, la sua naturalezza. La persona deve potersi vedere bella e non goffa. Anche in questo caso la mia fotografia è veloce, istintiva, fa parte proprio del mio modo di essere.

Invito al Viaggio: Daniele Venturelli, fotografo delle star 4
West Hollywood, California – 2 marzo 2014: Anne Hathaway e Jared Leto al Vanity Fair Oscar Party ospitato da Graydon Carter (Foto di Venturelli/Getty Images)

Idealmente quale viaggio ci inviti a fare con la tua fotografia?

Un viaggio caleidoscopico all’interno dei parties che tutti sognano, camminare sul red carpet di qualunque festival…

Se dovessi dire di te….

È una domanda scomoda, preferisco essere giudicato. Sono un autodidatta, uno che le cose se le fa, le fa al massimo, sempre. Sono un fotografo da evento, dove la faccio abbastanza da padrone in giro per il mondo.

Le fotografie che scatto col flash, così dicono, hanno una marcia in più e questa è la vera firma che autografa i miei lavori. Per il resto lo hai detto bene te, sono un velocista e questa definizione mi piace.

A Daniele quel ragazzino voleva farsi strada, che aveva “fame” e voglia di realizzarsi, che cosa vorresti potergli dire?

Gli direi di fidarsi del suo istinto che, fortuna e improvvisazione, faranno il resto e le cose andranno bene. Oggi sono soddisfatto di quello che ho fatto e gli direi che non mi sono sbagliato, rassicurandolo e incoraggiandolo a cercare di soddisfare quel fuoco sacro che sente dentro.

Free lance e una collaborazione con un’agenzia di fama mondiale, è questo oggi il tuo lavoro?

Per gli eventi principali ho i miei accrediti e poi collaboro da vent’anni con Getty, loro mi chiamano e come successo giusto ieri, mi mandano a Venezia ad un party molto esclusivo dove hanno chiesto espressamente di me.

Sono appena tornato da Capri dal party dell’Unicef, anche lì per espressa richiesta. Oramai mi conoscono e quindi chiedono che sia io ad andare e questa è la mia più grande soddisfazione: è il lavoro che mi cerca.

Così sono sempre a Venezia, Cannes, tutte le sfilate di moda, i party di Vanity Fair, i Golden Globe a Los Angeles, MTV Europe Music Awards, Sanremo, Festival del Cinema di Roma.

Oggi è andata bene che mi hanno mandato i biglietti in ritardo, altrimenti sarei su un volo per Marbella.

Jennifer Lopez e marito
Cannes Francia 15 maggio 2010: La cantante/attrice Jennifer Lopez e il marito cantante Marc Anthony partecipano alla Vanity Fair e al Gucci Party in onore di Martin Scorsese durante la 63a edizione del film di Cannes Festival all’Hotel Du Cap Eden Roc (Foto di Daniele Venturelli/WireImage per Gucci)

Quanta musica hai fotografato?

Tantissima, nei dieci anni del Pavarotti & friends da Elton John, George Michael, Bono Michael Jackson, Sting, Joe Cocker, Spice Girls, Renato Zero, Morandi, Antonacci, Eros Ramazzotti, Pausini, Céline Dion e tantissimi altri.

Prima di incontrare Daniele ho, come sempre, studiato le sue fotografie: queste mi hanno dato indizi importanti riguardo all’autore. Un uomo risoluto che, come gli piace sottolineare, si è affidato a sé stesso e all’istinto, avendo ben chiaro quale fosse il suo obiettivo.

Nessun corso o scuola particolare per prepararlo a fare un mestiere dove oggi è riconosciuto e ricercato. Sentendolo parlare, quel fuoco sacro che lo ha portato fin qui, io l’ho visto, l’ho sentito.

Daniele Venturelli è un fuoriclasse, uno sportivo della fotografia, che talentuoso, ha impegnato tutto sé stesso per sfruttare al meglio quanto avuto da madre natura, con intelligenza e dedizione.

Grazie per esserti raccontato così e, per quello che può contare il mio giudizio, le tue fotografie sono artistiche e “profumate”, buon viaggio.

Paolo Araldi il fotografo di strada che entra nelle case

Invito al Viaggio: Paolo Araldi fotografo "occasionale"
La Sposa Italiana

Paolo Araldi con le sue fotografie, scrive poesie, racconti intensi, che conservano la semplicità e lo stupore di chi guarda.

È nato a Genova, dove è vissuto solo pochi giorni, ma per questa città conserva un amore viscerale e atavico   e per “quei posti davanti al mare”, un legame indissolubile. Lo scorso anno ha fatto una mostra, en plein air, per strada a Camogli, che ha voluto chiamare semplicemente Camogli 1987-2020, dove ha messo mano al suo archivio non proprio ordinato, dove trovano posto non solo immagini ma affetti.

La “sua” Camogli è raccontata attraverso fotografie che sono emozioni allo stato puro, lontane dagli stereotipi delle cartoline, che scivolano tra le pieghe dei ricordi e dell’estetica.
Paolo Araldi attraverso le sue inquadrature ci conduce tra le vie di Camogli e la sua storia che si snoda dagli anni ’80 a oggi, con la semplicità di chi sa andare oltre il paesaggio, ma ne insegue l’anima. Particolari, che, anche quando sono in bianco e nero ne conservano il sole e la salsedine.

Paolo Araldi è un fotografo che con discrezione e delicatezza, cattura col suo obiettivo ciò che lo appassiona: questa è la conditio sine qua non. I suoi progetti sono raccolte di immagini che ci fanno intraprendere viaggi sempre nuovi: dal Torneo di Wimbledon alle abitazioni private di Palermo o le “sue spose” che raccontano la donna e la sua centralità nel matrimonio. Lui entra nelle case, si avvicina ad una sposa, nel momento più intimo, in punta di piedi e di quelle case, di quelle donne si sente il respiro e il profumo.

 Camogli
Camogli

Paolo Araldi fotografo, perché?

I fatti contano poco, il perché sta nel mio essere curioso e nell’attitudine ad osservare. Da ragazzo disegnavo, poi ho messo da parte il disegno, perché la fotografia mi ha permesso di andare oltre, entrando in case private, in luoghi che diversamente mi sarebbero stati inaccessibili.

È un viaggio, sempre e comunque: anche quando faccio un ritratto, sto con la persona, mangio con lei, cerco di conoscerla. Fotografo, per puro caso quando una sera a casa, ho scoperto che mia madre da un venditore porta a porta, mi aveva comprato un corso di fotografia.

Prima non avevo mai visto una macchina fotografica, ma evidentemente c’era qualcosa in me che aspettava di uscire. Così in seguito conoscenti, amici hanno cominciato a chiedermi fotografie, forse perché avevo un modo, di guardare, che piaceva.

La fotografia mi ha appassionato perché mi ha permesso non solo di vedere ma anche di conoscere, perché mentre si scatta si è costretti a chiedere di più, oltrepassando ogni soglia.

La passione per il disegno ha influenzato il tuo modo di fotografare?

La passione per il disegno mi ha assolutamente condizionato nella fotografia, così come la grafica. Ho fatto anche questo di mestiere, che mi ha insegnato tanto, a pulire, a metter le righe dritte. Quando faccio una foto vedo già l’impaginazione e questo vuole dire tanto: per lo spazio, le linee, i vuoti. Credo che sia qualcosa che abbiamo già nel DNA, poi si affina, con studio, disciplina e passione.

Qual è il tuo modo di guardare attraverso l’obiettivo?

La macchina fotografica è l’ultima cosa che frappongo tra me e il soggetto. Solo all’ultimo momento la prendo in mano, perché è l’empatia che fa il lavoro più importante. Devo assimilare, comprendere quello che intendo fotografare. Non sono un fotografo di moda, o pubblicitario, voglio dare grazia e soprattutto non falsare il mio soggetto, non mi piace. Fotografo quello che vedo, voglio rendere omaggio e verità.

Copertina libro _Trasiti_
Copertina libro Trasiti

Che fotografo sei?

Definirsi è la cosa più terribile, mi piace essere un fotografo di strada che entra anche nelle case, un fotografo occasionale. Il bello per me è seguire la fotografia che è il mio tramite per vedere: senza di lei avrei trovato delle porte chiuse, che invece si sono aperte.

Il mio libro Trasiti, dove venti palermitani nativi o d’adozione mi hanno aperto casa e cuore, racconta le persone, la loro quotidianità. Sono immagini vere, non da rivista, ma pulsanti di vita. Senza la macchina fotografica non avrei avuto la scusa di entrare e avrei ritratto Palermo come un qualunque turista.

L’unico non programmato, il primo, era un “basso”, un piano terra piccolissimo, occupato. Guardai incuriosito uno (con una faccia da avanzo di galera) che stava sulla porta fumando. Attratto, chiesi se potessi entrare a fare qualche fotografia. Lui, dopo avermi squadrato, mi disse: “trasiti”, che significa entra.

Trasiti ha titolato il mio libro e il tizio in seguito, mi ha detto di avermi fatto entrare perché avevo la faccia di una brava persona, mentre io di lui avevo pensato il contrario. Ma è un viaggio vero, anche il ritratto. Si deve incontrare la persona, capirla e la ricerca del fondale giusto, è fondamentale e può diventare un incastro perfetto. Talvolta lo sfondo dice già tanto, tutto, della figura: ad ognuno il suo.

Piero Nesti scultore
Piero Nesti scultore

Con la tua fotografia qual è il viaggio?

Quello che ci presenta la vita tutti i giorni, perché da raccontare ce n’è e all’infinito. Talvolta per gustare un viaggio, non porto neanche la macchina, perché se è con me, non sento neanche più gli odori, mi costringe ad usarla. Accumulo per abitudine tante foto, che solo col tempo poi diventano qualcosa di più.

La fotografia singola in sé, per il mio modo di vedere, non ha tanto senso, ma insieme alle altre, diventa molto di più. Per esempio, Wimbledon, per me è impossibile raccontarlo con una solo foto, ma con una serie di gambe, una serie di panchine…si materializza. Ho fatto tanti matrimoni dove andavo come se fossi un ospite, confuso tra la folla e con la libertà di scattare solo quello che mi piaceva.

C’è una fotografia che amo particolarmente e che cerco sempre: quell’attimo di intimità, l’ultimo prima che cambi tutta la sua vita, il momento del matrimonio che preferisco.

Questo fa parte di un lavoro dove racconto la sposa italiana, tutto imperniato sulla vestizione, quel momento così unico e importante, sul quale ho fatto un intero progetto… C’è l’essenza perché è lei il centro di tutto, lei che farà i figli, lei che manderà avanti la famiglia. Tutto il resto conta poco.

Invito al Viaggio: Paolo AraldiWimbledon
Wimbledon

Che cosa fa la vera differenza?

Il sentimento, il pathos fanno la differenza. A Wimbledon, per esempio, sono andato per passione; ho sempre seguito il tennis e anche se l’ho scoperto tardi (sorride e dice – sennò, forse, avrei fatto il tennista!) mi appassiona molto. Un gioco dove la mente è in equilibrio con la forza, fantastico!

Ero l’unico fuori dal coro e andavo in direzione contraria ai fotografi sportivi che, ovviamente, fotografavano altro. Io fotografavo loro che fotografavano il tennis. Ad un certo punto, addirittura, andarono a lamentarsi e chiesero anche di buttarmi fuori. Wimbledon è diventato una mostra, che, in barba, a quei “colleghi” mi ha regalato molta soddisfazione.

Wimbledon, Le spose, ma anche “quei posti davanti al mare”, come Camogli e Genova sono i tuoi racconti…

Camogli è il paese nel quale ho trascorso parte della mia gioventù e dove torno sempre con grandissimo piacere. Camogli 1987-2020 rappresenta un modo di guardare alla bellezza della nostra Italia, con occhi diversi. Ho escluso qualunque immagine paesaggistica o illustrativa, dando spazio ai particolari, lasciando che Camogli apparisse in “un tempo senza tempo”.

Genova è la protagonista di un lavoro che verrà e al quale tengo molto: è lì che sono venuto al mondo e anche se l’ho lasciata pochi giorni dopo, quando ci torno, è stupefacente come l’odore del porto, del mare, e quello ancor più forte dei vicoli, mi precipita nel ventre di mia madre. Questo sarà un ritratto e un omaggio a questa città che sento e sentirò per sempre, madre.

 Genova, Ragazza, Madre
Genova, Ragazza, Madre

Cosa chiedi alla fotografia?

Niente, mi ha già dato tanto. Ho lavorato tutta la vita senza avere il peso del lavoro. La fotografia mi ha dato la libertà di non sentire il senso di oppressione, che tanti provano nel lavorare. Una libertà senza limiti, impagabile. Mi impegna i momenti della vita che altrimenti sarebbero vuoti: io lavoro sempre, anche di notte … è come fare l’uncinetto.

Ciao Paolo, spero di non aver utilizzato “parole stereotipo” legate alla fotografia che non ti appartengono e che so, ti infastidiscono. Nessuna performance, per te ma fotografie sincere, che conservano tutto il profumo, di un’immagine, di un ricordo. Fotografo “occasionale” dici di te, poetico, aggiungo io. Se decidi di fare l’uncinetto invece che progetti fotografici, ci sentiremo tutti un po’ più soli. Buona strada!

Invito al viaggio: Monica Cordiviola e le “sue” donne. I suoi scatti arrivano dal cuore

Monica Cordiviola
Justine Mattera

Monica Cordiviola è la fotografa delle donne e la sua missione, è ritrarle mettendo in luce la loro sinuosità, la bellezza che è intrinseca in ognuna di loro. La sua è una firma inequivocabile che cerca l’essenza, mettendo da parte pregiudizi e preconcetti.

Le sue sono donne molto diverse tra loro, che diventano protagoniste e regine di quello scatto. Il bianco e nero, è quello che predilige perché – dice- ha più carattere, è più teatrale e forse, le somiglia. Monica ha all’attivo mostre, a Firenze, Arezzo, Milano ed è stata autrice dell’anno al prestigioso festival della fotografia a Corigliano Calabro nel 2018.

Le sue donne si sentono belle ed intriganti, senza essere necessariamente delle top model. La donna nei suoi scatti ritrova e sfodera tutto il suo fascino, che sia spogliata o vestita, consapevole e libera.

Monica, presentaci Monica Cordiviola…

Sono nata al mare, il 9 agosto del 1970, i miei abitavano a Bolzano, ma mia mamma tornò in Toscana, per farmi nascere a Carrara. La nostra è stata una vita nomade per il lavoro di papà e per questo, ho studiato a Torino. In seguito, mi sono iscritta a giurisprudenza a Firenze, ma più che l’università ad attrarmi erano i musei, le mostre, dove trascorrevo incantata le giornate. Ho mollato, dopo due anni e ripensando a quel periodo, però, oggi posso dire con certezza, che tanta di quella bellezza che andavo cercando, è quella che mi ha spinta a diventare quella che sono, come donna e come fotografa.

Come è entrata la fotografia nella tua vita?

La fotografia è entrata nella mia vita per caso. Credo di averla sempre amata, fin da quando bambina, con la mia polaroid ritraevo qualunque soggetto. A dieci, quindici anni collezionavo riviste di moda come Harper’s Bazaar, Vogue, attirata da editoriali dedicati alla moda ma soprattutto affascinata dai ritratti delle donne che vi trovavo.

Donne di ogni genere, che ritagliavo e conservavo ordinatamente in cartelline che impilavo sul mio comodino. Quando la fotografia, è diventata un mestiere, ho recuperato immagini e ricordi della mia memoria traendone ispirazione. Mi sono resa conto come “quell’attrazione fatale”, non fosse casuale, ma dettata da una passione istintiva che aspettava solo di palesarsi.

L'attrice Ekaterina Ivanova, Porto Venere, scogliere nere.
L’attrice Ekaterina Ivanova, Porto Venere, scogliere nere.

Quando l’attrazione fatale è diventata il tuo mestiere?

È diventata un mestiere intorno ai trentacinque anni, per caso o forse, per destino. Ebbi un piccolo incidente a Carrara, per una buca sulla strada. Con il gruzzoletto che mi ritrovai a disposizione, mi comprai una macchina fotografica, carina anche se non super professionale.

Ho cominciato, così a ritrarre me stessa. Perché? Non mi piacevano le foto fatte da altri. Mi piacevo, non avevo complessi, ma nelle foto non mi riconoscevo. Con un timer, un cavalletto e lo specchio, passai un anno e più, a fotografarmi, “cercando-mi”.

La fortuna è stata anche determinata dal fatto che contestualmente sono nati i social, dove pubblicavo le mie foto rendendomi conto, ben presto, che piacevano. Così ho cominciato a lavorare prima per amici, poi l’amica dell’amica e grazie al passaparola mi sono ritrovata a trasformare la passione in qualcosa di più.

Devo essere grata a mio marito, che visto il tempo, di giorno e di notte, che dedicavo a studiare, a leggere, mi fece riflettere sulla possibilità di dedicarmi completamente alla fotografia, dandole lo spazio che reclamava. Un grazie speciale lo devo all’amico di Carrara, Nicola Giannotti, che mi ha insegnato tanto, mostrandomi il suo lavoro. Da perfezionista, qual sono, ho davvero studiato moltissimo per capire e imparare anche a post produrre, ma cocciutamente e rigorosamente da autodidatta, ho trovato la mia strada.

Oggi vivi e lavori a Milano, capitale della moda e della fotografia, dove hai trovato il tuo posto…

Milano è una buona piazza, ma è una vera giungla dove ci sono tanti fotografi e bravi. Il problema era l’autorialità, ovvero trovare la mia “firma”. Un incontro casuale con il grande Giovanni Gastel, fu illuminante: guardando le mie fotografie, mi consigliò di sottolineare la mia identità fotografica, di delineare con contorni netti ed inequivocabili, i miei scatti.

Ximona, foto stata scattata su un antico faro alle Cinque Terre. Veri protagonisti sono i giochi di luce e ombre, per questa donna forte e determinata.
Ximona – questa immagine, alla quale Monica è molto legata, è stata scattata su un antico faro alle Cinque Terre. Veri protagonisti sono i giochi di luce e ombre, per questa donna forte e determinata.

Monica Cordiviola la fotografa che ama le donne…

Amo ritrarre donne di ogni età, di ogni genere, ognuna con la sua storia, spesso scritta nelle sue movenze e da donna, credo di avere un vantaggio nel ritrarla. Mi viene spontaneo e loro sono a proprio agio in un rapporto più diretto, senza fronzoli.

Mi appaga riuscire a tirar fuori la loro essenza, il loro vissuto come la sinuosità che solo un corpo femminile possiede. Sono molto attenta all’armonia, alla delicatezza, a particolari che un uomo non credo possa vedere.

Nel farlo, mi rendo conto che il mio peregrinare per i musei, le chiese fiorentine, dove avrei dovuto, in realtà, fare giurisprudenza, erano una semina importante e destinica. Un altro indizio che, con i ritagli che collezionavo da bambina, tracciava in modo inequivocabile il mio identikit e il mio futuro.

Qual è il contesto ideale per le tue donne?

Sono contestualizzate, perché ogni persona ha bisogno del suo scenario. Quando è possibile preferisco fuori, lo studio mi annoia. Il ritratto è un incontro tra il fotografo e il suo soggetto con la palla al centro. Si gioca ad armi pari, deve esserci equilibrio.

Ovviamente lavorare fuori dallo studio è molto più impegnativo, non c’è nessuno schema luci e possono esserci imprevisti. Per lavorare all’aperto, mi preparo uno storyboard, faccio ricognizioni e scatti di prova per verificare l’intensità della luce. Tutto questo lavoro in più, però, è impagabile e credo che lo spettatore, chi guarda, in questo modo non si annoi mai.

È un viaggio ogni volta diverso e inaspettato, che mi dà la possibilità di diversificare ed esaltare la personalità che ritraggo e credo, di catturare l’attenzione.

Qual è il tuo lavoro oggi?

Faccio principalmente shooting professionali e mi definisco una ritrattista prestata alla moda e al mondo di Masterchef, perché sono sempre i visi e i corpi ad attirare la mia attenzione. Quando è possibile, anche con personaggi famosi, preferisco poco o niente trucco, meno filtri possibili.

Vedere la Musica: Monica Cordiviola
Progetto con mostra fotografica a Corigliano Calabro, dove Monica Cordiviola è stata autrice dell’anno. La mostra s’intitolava Voluttà e Mediterraneo, la modella è Alessandra Giulia

Lavoro molto anche per privati, aziende e sono docente di fotografia in workshop in giro per l’Italia. Quando mi è possibile, faccio mostre dove libero la mia creatività e ritraggo le “mie” donne, prima ho del tutto spogliate e che oggi invece, mi piace fotografare anche vestite, tirandone fuori tutta la sensualità.

Ci sono incontri che sono stati fondamentali per la tua formazione?

Parlando di persone Efrem Raimondi, è e sarà uno degli incontri più importanti sia dal punto di vista umano che professionale. Efrem è uno tra i migliori ritrattisti della politica, della musica, delle star (tra cui Vasco Rossi), scomparso all’improvviso a soli sessantadue anni, all’inizio di quest’anno lasciandoci tutti orfani del suo grande talento.

Quando venni a Milano, fu il primo a chiedermi, via social un’intervista e di mandargli le fotografie delle mie donne. Alla fine, abbiamo fatto tanti workshop insieme, ma soprattutto siamo diventati amici. Mi ha davvero insegnato tanto e ho ricordi bellissimi di lui che conservo gelosamente.

Donna per le donne. Quando devi fotografare un uomo?

Cerco sempre e con più ostinazione, la loro parte delicata, che credo ci sia più o meno nascosta. Per esempio, ho fatto ritratti a Carlo Craco e anche con lui, nonostante passi sempre per essere un duro, ho scavato e si sa, chi cerca trova! In ogni caso cerco di fare in modo che le persone si sentano a proprio agio e di questo devo ringraziare mio papà che ci ha sempre tenuto molto.

Ricordati, diceva, che tu sia con una persona molto umile o al contrario molto importante e altolocata, non devi mai perdere di vista la persona, il rispetto per chi hai davanti a prescindere dalla sua posizione sociale. Un esercizio, un’educazione che fa parte di me e che mi facilita ancora oggi.

Come ti prepari?

Cerco di incontrarle prima, vedere come si muovono, osservarne le mani, la gestualità, cercando di capire quali siano i punti più vulnerabili. Le donne meno belle di solito sono più sciolte, le avvenenti, devono imparare a mettere da parte atteggiamenti forzati, convincendosi di non avere bisogno di ostentare. Ognuna ha il suo perché, io vado cercando la sua bellezza unica e irripetibile.

Progetto con mostra fotografica a Corigliano Calabro, dove è stata autrice dell’anno. La mostra s’intitolava Voluttà e Mediterraneo, la modella è Alessandra Giulia

Qual è stato il momento, il lavoro che ti ha dato finalmente visibilità, facendoti entrare di fatto tra i grandi?

Il primo lavoro commissionato per Martina Colombari, mi ha regalato tanta visibilità e nonostante avessi già una bella carriera, la sua notorietà, mi ha davvero fatto fare un bel salto. Lavoro ancora oggi molto spesso con Martina, che mi definisce un generale e non posso darle torto.

Sono una super perfezionista, non lascio niente al caso e quella storyboard che scrivo, con le pose e la composizione, ce l’ho già chiara in testa. Amo moltissimo la montagna e l’arrampicata, uno sport che pratico con mio marito e che mi piace paragonare al mio modo di lavorare: non si può essere approssimativi, ma precisi.

Quella bambina che conservava ritagli di riviste, collezionando immagini di donne, è ancora parte di te?

A tutt’oggi conservo quella voglia di cercare e guardo film di nicchia, vecchie commedie,  film francesi e ne colleziono immagini che mi rimangono in testa: oggi, però, a differenza di allora, ho la macchina fotografica in mano e la possibilità di trasformarle in immagini, le mie.

Oggi hai trovato la tua firma autorale e i tuoi ritratti sono inconfondibili…

Quando ritraggo una donna mi immedesimo nella sua fisicità e cerco di capire come vorrei essere ritratta se fossi in lei: questo è un autografo, la mia firma stampata nella fotografia d’autore. Bianco e nero perché mi ricorda la grana rumorosa della pellicola.

I ritratti puri, li preferisco in bianco nero. Sono più teatrali, molto contrastanti hanno carattere come me. Quando mi chiedono come arrivo a quello scatto, non so come rispondere perché mi arrivano dal cuore. Ognuno devo trovare la propria ispirazione, la propria strada.

Come ti definiresti?

Una fotografa che ama le donne, che va a caccia di sinuosità. Non amo definirmi, ma mi piace che siano gli altri a farlo, non importa se bene o male. Forse sono una che fa buona fotografia, non bella. Cerco di fare in modo che la mia fotografia ti rimanga in mente, questo vuol dire che ho fatto centro. La mia donna voglio che sia libera da preconcetti, da pregiudizi: libera di testa.

Monica Cordiviola nudo senza titolo come tante delle mie fotografie
Nudo senza titolo come tante delle foto di Monica Cordiviola

La musica nella tua vita che posto ha?

È una compagna di viaggio e mi accompagna quando lavoro. Ascolto un po’ di tutto dai Madrugada, alla musica anni ’90, Manu Chao, Buena Vista Social Club.

Scorrono i titoli di coda, il tempo è volato e ci siamo davvero divertite – chiosa Monica. Parlando con lei e soprattutto guardando quelle tante donne che ha ritratto, mi è assolutamente chiaro il perché sia lei la fotografa delle donne, e dico: “Insomma farsi fotografare da te, è come scegliere tra un bravo ginecologo o una brava ginecologa, non c’è storia!” – Brava! Scrivilo!

Questa è Monica Cordiviola, una fotografa, una donna.

Il Maestro Ciro Gerardo Petraroli, alias Yeros: un viaggiatore

Invito al viaggio: Ciro Gerardo Petraroli
Dopo una lunga carriera nella musica classica, nel 2014 ha creato un genere completamente nuovo che ha chiamato Darklassic (Foto © Moreno Maggi)

“La musica è movimento se non ci fosse movimento, non ci sarebbe la musica. La musica stessa è un viaggiare in spazio-tempo, è percepire il viaggio, il movimento. È immergersi”

Ci sono viaggi dentro il viaggio, incontri inaspettati che ci conducono laddove non avremmo immaginato. Il mio incontro con il Maestro Ciro Gerardo Petraroli, alias Yeros è uno di questi. Il Maestro è una di quelle persone che ti siedono accanto in treno, in aereo, o che incontri, casualmente su un sentiero, per le quali istintivamente provi curiosità ed anche soggezione.

Eppure, come tutti i grandi, sa come prenderti per mano e con semplicità, condurti condividendo il suo sapere, la sua sensibilità di artista, regalando a piene mani, generosamente, la sua arte e la sua vita. Il Maestro è un artista, compositore, pianista e direttore d’orchestra, definito dalla critica Mente eclettica con un’immagine ed una presenza magnetica” che ha dedicato la vita alla musica, la filosofia e l’esoterismo delle religioni.

Dopo una lunga carriera nella musica classica, nel 2014 ha creato un genere completamente nuovo che ha chiamato Darklassic, uno stile compositivo classico che integra sonorità tradizionali, suoni elettronici e ritmi etnici, i quali si fondono con concetti di filosofia mistica (Arte e Gnosi) in percezioni subliminali trascendenti.

In questo modo la sua performance non è solo un concerto, ma anche un suggestivo spettacolo visivo, in cui non vi è solo l’Artista sul palco. Il pubblico viene catturato: l’atmosfera diviene misteriosa, trasportando il pubblico in luoghi nascosti e profondi della propria psiche, permettendogli di scrutare realtà e percorsi interiori metafisici.

Ha conseguito i suoi studi in vari conservatori internazionali, tra cui il Conservatorio Mozarteum di Salisburgo, il Conservatorio di Santa Cecilia a Roma ed il Conservatorio Niccolò Piccinni di Bari, dove il Maestro Nino Rota lo scelse fra tanti per il proprio corso di composizione.

Gli stili eclettici compositivi dimostrano la sua  natura poliedrica: sinfonia per orchestra, concerti per pianoforte e orchestra, per violino e orchestra, sonate per pianoforte, musica da camera di stile 700, Lied e Romanze di puro lirismo, commenti musicali, colonne sonore in vari film francesi come Le Boulevard de Saint Michael del regista Anton Dumas, musiche per danza classica, musica sperimentale e Afro – Rock Zuuli con Dumhishan Damlini di Johannesburg e il grande musicista e compositore sudafricano Msomi Welcome.

Maestro Petraroli se dovesse tratteggiare una sorta di carta d’identità di sé stesso, cosa direbbe?

Da giovanissimo sono stato in seminario per dodici anni e alle soglie del sacerdozio, ne uscii. Iniziavo a rendermi conto che per la mia natura aderivo al pensiero filosofico del cristianesimo, il senso civile del perdono, del rispetto, sapendo perdonare e perdonarsi, ma cozzavo col potere della Chiesa cattolica. Un grande conflitto, con me stesso e con i miei superiori, che per la mia natura ribelle non accettavo.

Il seminario, però, è stato importantissimo e mi ha dato molto. Ho potuto fare il liceo classico, studiando filosofia e teologia, ho avuto l’opportunità di suonare l’organo a canne e di fare il Conservatorio Niccolò Piccinni di Bari con Nino Rota.  Ho continuato gli studi laureandomi in filosofia delle religioni per ampliare e capire come il bisogno della fede sia di tutti e serva a colmare vuoti interiori e dal cattolicesimo sono passato a rivalutare le mie idee verso un aspetto più esoterico.

Questo mi ha portato a viaggiare tanto, a vivere. Ho vissuto due anni in sud africa dove ho insegnato a Cap Town, lì il concetto della religione è molto etnico e mi ha permesso di capire anche la loro musica e la loro religiosità. Molto diversa dall’appartenere ad una religione. Sono un cittadino del mondo, o meglio dei paesi. Amo le persone semplici, autentiche, in tutti i luoghi e in tutti i modi del mondo, dove i bambini sono uguali e ci ricordano la nostra eguaglianza, quello che ci accomuna.

Quando e come la musica è entrata nella sua vita?

Un bisogno nato da bambino, nel vedere e sentire mia madre con i coperchi e le padelle, perché è muoversi fare rumore, ascoltarsi. Ho iniziato a suonare osservando i movimenti delle dita del mio parroco sull’Armonium. Ho imparato con gli occhi, non vedendone i piedi, ma ripetendo immediatamente con facilità, i gesti delle sue mani.

Invito al viaggio: Ciro Gerardo Petraroli
Invito al viaggio: Il Maestro Ciro Gerardo Petraroli “Sono un cittadino del mondo, o meglio dei paesi. Amo le persone semplici, autentiche, in tutti i luoghi e in tutti i modi del mondo, dove i bambini sono uguali e ci ricordano la nostra eguaglianza, quello che ci accomuna” (Foto © Moreno Maggi)

Quando ha capito che sarebbe stata il suo mestiere?

Ad un certo punto è diventata professione quando quasi stupefatto, mi rendevo conto che mi dava da vivere. Era stato fino a quel momento, qualcosa di sacro dentro di me, inaccessibile.

Poi ho cominciato a dare un nome alla musica, non posso dire mia, perché questa, è di tutti e non può appartenere, così come le opere d’arte.

Non mi appartiene ne sono un’espressione esterna, come insegna Michelangelo che diceva di aver tirato fuori dal marmo quello che già c’era dentro. In realtà, ho zittito note e ne ho fatte emergere altre.

Dalla musica classica, alla Darklassic. Da Ciro Gerardo Petraroli a Yeros. Quale è stato il percorso e perché Yeros?

Il cammino vero è che sono uscito, mi sono allontanato dal solito classico, sono arrivato al bisogno vero, alla sintesi. La musica è diventata un vestito per poter realizzare un pensiero filosofico di tipo psicoterapeutico. In questa Darklassic c’è tutta la carica emotiva concentrata che s’impone tirando fuori tutta la forza interiore istintiva che c’è dentro di noi.

È il passaggio dall’aspetto formale a quello sostanziale. Sono Yeros da circa vent’anni e deriva dall’ebraico che ho studiato a lungo. La Y sull’Eros è motivo di superamento e sublimazione dell’archetipo dell’eros nell’accezione più comune del termine (passione, erotismo), dandoci così la facoltà di cogliere e usufruire di un nettare che dà essenza alla vita e che potremmo perdere se e quando, fosse il solo corpo a governarci. Noi siamo molto di più del corpo che abitiamo.

La musica si ascolta e si vede?

La musica è movimento se non ci fosse movimento, non ci sarebbe la musica. La musica stessa è un viaggiare in spazio-tempo, è percepire il viaggio, il movimento, è immergersi. La musica è madre, è fede, è religione. Il viaggio è un rischio, come la musica. Viaggiando si ascolta non solo la musica ma la sua natura, i paesaggi che la accompagnano in un continuo stato di disorientamento che orienta nuovamente.

La musica si vede e si mangia, è da respirare, da toccare, da respirare. Un viaggio continuo, un ricordare, rivedersi. Anche se uno non ascoltasse musica, si sente, si percepisce in quello che ci circonda. Viaggiando in ogni luogo, ritrovo tutti i luoghi, rivedo e ripenso a tempi che non ho vissuto e a chi ha attraversato e calpestato quella terra, un viaggio nel viaggio. 

Cosa rappresenta la musica per te? È un viaggio attraverso paesi, mari e terre ma anche dentro di noi?

Il bisogno di viaggiare e cercare, non di trovare, questa è la mia dannazione. Sono un viaggiatore che vaga di terra in terra, ma anche nell’animo umano. Cercare è diverso dal trovare, quel trovare che diventa spesso intransigenza, per me è intollerabile. L’esatto contrario della crescita interiore è il non cambiare mai, spesso solo per partito preso. Io non arrivo mai, continuo a viaggiare.

 

Il Maestro Ciro Gerardo Petraroli
Invito al viaggio: Il Maestro Ciro Gerardo Petraroli “Ascolto il silenzio, è come se tutta l’altra musica l’avessi già ascoltata dentro” (Foto © Moreno Maggi)

È in uscita il nuovo disco, al quale hai dedicato anni di lavoro…

Il nuovo disco di Yeros che uscirà a breve, è L’Apostata. Un disco al quale ho lavorato a lungo, dove sono contenuti tre brani che superano i venti minuti, Extra omnes, Evocation, Et in Arcadia Ego. Ogni brano è un viaggio al quale abbandonarsi, ci si lascia andare senza sapere dove porterà.

Ci sono l’orchestra classica, i cori, insieme a sonorità elettroniche e ritmi incalzanti. Quadri diversi dove ho recuperato nenie che appartengono a ricordi della mia infanzia, tipo il richiamo dell’arrotino o quella dell’omino che vendeva la burrata dentro le foglie, che ho messo in musica.

Suoni che fanno parte di noi, che rimangono dentro, come le voci del mercato. Suoni profondi, arcaici: noi siamo la sintesi anche del passato. Ci siamo dilatati, più che evoluti.

Quando non fai la tua musica, cosa ascolti?

Ascolto il silenzio, è come se tutta l’altra musica l’avessi già ascoltata dentro. Già era. Non smetterò mai, morirò in qualche terra straniera e mi sotterreranno come vorranno loro.

Quale sarà il prossimo viaggio?

Tornerò in Sudafrica, ho bisogno di rivedere il temporale e cercare, volgendo lo sguardo dall’altra parte, il sole. Là, ho suonato Bach tra gli indigeni e i ragazzetti, all’aperto. Loro non la capivano ma si sono abbandonati e l’hanno suonata con i bonghi, battendo con qualunque cosa, regalandomi un’emozione grandissima.

Questa rubrica Invito al viaggio, ispirandosi alle parole di Sgalambro e Battiato, mi fa tornare in mente un ricordo. Mi trovavo al Convento de La Verna con i monaci, dove facevo dei concerti d’organo e dove due giorni dopo, ci sarebbe stato il concerto di Battiato. Stavo suonando nel tardo pomeriggio, nel cortile, quando si avvicinò Battiato e mi disse “Che bello, che cosa sta suonando?”. Io sorpreso dei complimenti, risposi Frescobaldi…

Il maestro Ciro Gerardo Petraroli
Invito al viaggio: Il Maestro Ciro Gerardo Petraroli “Sono un viaggiatore che vaga di terra in terra, ma anche nell’animo umano” (Foto © Moreno Maggi)

Che cosa chiedi alla musica?

Di non abbandonarmi, perché ho la certezza che vivrà al di là di me. Io non creo ma compongo. Le chiedo di azzittirmi, per lasciarle lo spazio di parlare e di ascoltarmi, ci guardiamo.

Il nuovo disco è concluso, ma non riesco ad immaginarti senza un “occupazione”. A cosa stai lavorando?

Sto scrivendo un valzer e un altro brano con un titolo in ebraico per orchestra e coro, di musica neoclassica. Per me è un antidepressivo naturale, o scrivo o studio testi antichi. Sono in continuo orientamento, riscoprirsi è bello e vitale.

Mi torna in mente una frase di Cesare Musatti, che diceva che il padre ogni giorno portava a casa qualcosa di nuovo e la moglie, la madre, la deponeva in un cassetto. Questo pensiero mi dà un senso di consapevolezza, di serenità che è saper custodire il proprio passato, rivedendolo, per trovare il futuro.

A malincuore, ci salutiamo e da quel reverenziale lei, dal quale siamo partiti, su questo sentiero fatto di parole, emozioni, ricordi e tutto il suo immenso sapere, siamo giunti ad un “tu”, sincero ed empatico di due viaggiatori che hanno condiviso una parte di strada. Ti ringrazio Maestro e attendo di intraprendere un altro meraviglioso viaggio con la tua musica e con L’Apostata. Grazie, Paola

Tancredi Bua: “Fotografo solo con le parole”

 “fotografa” la musica e non solo quella,
Vedere la Musica: Tancredi Bua, solo parole, “fotografa” la musica e non solo quella, ma senza macchina fotografica

Questa rubrica, come ogni viaggio, vuole essere libera di annotare e ricordare, ogni incontro inaspettato, ogni imprevedibile imprevisto. Non è un viaggio pianificato su strade battute e segnate, ma ama l’avventura e ne assapora il gusto. Questo è il tempo di rifare il bagaglio e se vi va, ripartire.   

Il nostro viaggio ci porta ancora una volta a sud, questa volta nella splendida e assolata Palermo. Il mio compagno di viaggio è Tancredi Bua, che “fotografa” la musica e non solo quella, ma senza macchina fotografica. L’unico strumento del nostro “fotografo”, sono le parole. Tancredi, classe ’90, ha già impresso nel nome una storia, un destino che arriva da lontano. Abbiamo riso insieme, quando ho deciso di includerlo in questa rassegna di fotografi, ma chi ama l’avventura e la fantasia, sa che talvolta le parole possono degnamente sostituire le immagini, perché, spesso, “L’essenziale è invisibile agli occhi” (Le Petit Prince Saint- Exupéry).

Tancredi “Nomen omen”, un nome un destino?

Credo proprio che sia così: mia mamma lesse con passione Il Gattopardo e poi, quando mi aspettava, vide anche il film di Visconti. Il ballottaggio era con Telemaco, ma fortunatamente il personaggio di Tancredi, Alain Delon nel film, ebbe la meglio. Quando ancora oggi con nonchalance, mi mette al corrente che sono usciti dei nuovi concorsi, le rispondo che avrebbe dovuto chiamarmi Salvatore, non Tancredi…solo così avrei cercato e voluto il “posto fisso”, invece che avventurarmi armato solo della mia creatività, nel mondo.

Tancredi cosa dice di Tancredi?

Trentenne italiano, che non smette di credere, di avere passioni, tante passioni. Quando si crede, gli altri lo percepiscono: è un fuoco sacro che brucia dentro, ma tangibile e visibile a tutti. Quando devo pensare e ho il mio tempo, le idee fluiscono meglio se ho tra le mani carta e penna, alleati ideali e irrinunciabili anche quando devo trovare i nomi ai personaggi di un romanzo. Se così non fosse, non mi riconoscerei più…e sarei solo un trentenne italiano, confuso. Ho fatto il liceo classico poi Scienze dello Spettacolo e Cultura del testo, come specialistica. In ogni caso, il posto fisso non ce l’ho mai avuto (se ne sono tutti fatta una ragione) ma mi sono sempre mantenuto autonomamente e questo mi fa sentire davvero bene…

ero appassionato di cortometraggi
Intorno ai sedici anni ero appassionato di cortometraggi ed impegnavo così le mie energie e il mio tempo libero

Perché ti definisci “fotografo” con le parole?

Nasco come giornalista e ho lavorato a lungo con fotografi in tantissimi e importanti concerti. Spesso mi sono reso conto che quello che io vedevo e avrei voluto raccontare, non trovava coincidenza con gli scatti dei fotografi. Non sempre è così, per fortuna, ma capitava che quando io trovavo il mio “scatto ideale”, il fotografo fosse già andato via o per problemi diversi, proprio non ci fosse. Ho scritto sul Giornale di Sicilia di concerti importanti e indimenticabili da Patty Smith a Battiato, e Springsteen tra gli altri.

Ho ricordi vividi e incancellabili che ho cercato di illustrare con le parole. Quando scrivevo per il giornale, mi è sempre piaciuto legarmi con le parole, con la mia descrizione, alle fotografie, ad una scena, un’immagine anche senza mostrarla. Un po’ come fa il radiocronista che con il solo racconto ci fa vedere, di fatto, le partite.  Ho sempre puntato all’immediatezza per far sì che leggendo la recensione o l’articolo, si potesse vedere quello a cui io avevo assistito, regalando brandelli di quelle emozioni vissute sotto il palco.

Qual è stato l’incipit di questo tuo mestiere?

Il mio percorso è atipico. Intorno ai sedici anni ero appassionato di cortometraggi ed impegnavo così le mie energie e il mio tempo libero. Fino a quel momento, erano le immagini a prevalere sulle parole, ma in seguito mi sono reso conto che, in realtà, sono quest’ultime ad essere davvero potenti. Ho virato verso la narrazione, consapevole anche che sia più facile produrre gli scritti che un film.

Personalmente, preferirei avere la paternità sullo scritto piuttosto che sulla regia. Ho fatto un passo indietro e sono approdato alla scrittura, diventando uno dei collaboratoti più giovani del Giornale di Sicilia, scrivendo di spettacoli e cultura e tanto di concerti e musica.

Qual è il tuo “mestiere” Tancredi?

Lavoro come coautore dei Sansoni, duo comico palermitano composto dai fratelli Fabrizio e Federico. Ho scritto con loro un cortometraggio, Non sono problemi nostri, sul problema dell’immigrazione. Abbiamo scritto anche uno spettacolo teatrale che è rimasto bloccato dal lockdown. Oggi lo abbiamo ripreso in mano perché ha bisogno di essere contestualizzato con i cambiamenti, notevoli, che hanno modificato il mondo e la società. Uno spettacolo che racconta l’oggi deve essere continuamente aggiornato e a tempo con i tempi.

Anche quando si ride non si deve mai mettere da parte la coscienza: anche nelle risate più nere, non si può prescindere dalla responsabilità civile delle conseguenze delle nostre parole.

Tancredi Bua, Trentenne italiano, che non smette di credere, di avere passioni, tante passioni
Vedere la Musica: Tancredi Bua, solo parole. Trentenne italiano, che non smette di credere, di avere passioni, tante passioni

Hai “fotografato” con le parole tanti grandi concerti, vuoi parlarcene?

Il 2013 è stato un anno particolarmente importante con almeno tre grandi eventi che non dimenticherò. Il primo è stato Bruce Springsteen a Piazza del Plebiscito a Napoli, poi Franco Battiato al Teatro Politeama di Palermo. Di quest’ultimo, ricordo che quando il Maestro con Mesopotamia, cantò:

“Che cosa resterà di me, del transito terrestre?

Di tutte le impressioni che ho preso in questa vita?

Tutto il pubblico intorno a me alzandosi in piedi, cominciò ad applaudire: quello era il momento, l’attimo perfetto per scattare una fotografia, per immortalare quello che ho impresso ancora oggi nel cuore e che sentivo di dover condividere.  Il fotografo, però, non c’era più.

L’altro indimenticabile concerto del 2013 è quello di Patty Smith a Palermo al Teatro di Verdura. La intervistai per telefono in una connessione Palermo-Amsterdam e promise di autografarmi l’album Easter. Non amo i concerti dove si spaccano strumenti, ma lei riuscì a fare un gesto così, utilizzandolo per sottolineare un importante messaggio, rendendolo quindi una comunicazione irrinunciabile e lecita. Patty, lo fece nel cantare la cover My Generation degli Who e mentre rompeva la chitarra, arrivò forte e chiaro il messaggio: sono solo beni, sono cose, niente di più. Poi, sull’onda dell’entusiasmo, oltre all’autografo promesso, feci l’errore di chiedere anche una fotografia con lei. Si sottrasse elegantemente, ma capii, con quel gesto educato, quale fosse il confine.

Andromeda “L’essenziale è invisibile agli occhi”
Vedere la Musica: Tancredi Bua, solo parole – “L’essenziale è invisibile agli occhi” (Le Petit Prince Saint- Exupéry)

In ultimo ricordo Colapesce che intervistai quando uscì il disco Un meraviglioso declino e come in quel concerto fossimo in dodici, a voler essere generosi. Di Martino e Colapesce erano già allora molto amici e “connessi”, al punto che intervistando uno dei due, mi sentivo dire e invitare a chiamare anche l’altro. Da lì a qualche anno, cominciarono a scrivere insieme e oggi è Musica leggerissima…

Il tuo percorso è stato, come dici, atipico. Hai lasciato che a guidarti fosse il tuo istinto creativo. Ci sono stati incontri significativi per la tua formazione?

Totò Rizzo, capo area per cultura e spettacolo del Giornale di Sicilia è la persona alla quale sarò sempre grato. Lui mi ha formato, assistendo all’inizio, anche alle mie interviste prima più ruffiane poi più rilassate, mi ha seguito e fatto crescere. In seguito, ho fatto anche Radio, dove ho incontrato Mario Caminita che è stato in quell’ambito un vero mentore. Quando un po’ confuso mi chiedevo quale fosse la mia strada, lui mi chiese: “Che cosa ti piace fare?  Risponditi e fallo senza mezzi termini”. A quel punto mi son detto, se posso scrivere e al contempo, produrre contenuti video, perché non farlo?

 Tancredi Bua
Vedere la Musica: Tancredi Bua, solo parole

Tancredi oggi, qual è il tuo viaggio?

Oggi sto lavorando a quello che potrebbe essere il mio primo romanzo, una sorta di fantascienza romantica, dove non ci sono astronavi ma relazioni umane. Sono impegnato a rivedere lo spettacolo teatrale con i Sansoni e soprattutto, sono felice di essere quel che sono: Tancredi e non Salvatore!

Grazie Tancredi, giovane uomo armato di carta e penna, buon viaggio e per favore, continua a fotografare con le parole, raccontando anche quello che è invisibile agli occhi….

Invito al viaggio con Alessandro Giugni, il fotografo “umanista”

“La fotografia è per me un modo per capire le persone”

Vedere la musica: Alessandro Giugni la fine del cammino
Vedere la musica: Alessandro Giugni – la fine del cammino

Alessandro Giugni è un fotografo documentarista, con una storia personale intrigante e curiosa. Alessandro nasce a Milano nel ’94, in una famiglia che tutto si sarebbe aspettata da lui, fuorché questa passione per la fotografia. Giovanissimo e con dei ritmi di vita quotidiani, da vero “atleta” della vita, Alessandro da figlio unico, ha dribblato (letteralmente, vista la sua passione per il calcio) ogni aspettativa, dall’azienda del nonno, della quale ha ereditato le quote, allo studio avviato del padre e la carriera universitaria della mamma, scegliendo di dare un posto importante e irrinunciabile alla sua vera passione: la fotografia.

Considera questa forma d’arte, un mezzo per esprimere il suo sentire e raccontare il nostro tempo. Nel mese di ottobre 2019, Vittorio Sgarbi sceglie due sue fotografie per esporle a Recanati a Villa Colloredo Mels in occasione della mostra, ideata e curata dal noto critico, dal titolo Paesaggio Italiano L’infinito tra incanto e sfregio.

Un’attenzione da parte di Sgarbi che si conferma l’anno dopo, con un’altra fotografia di Giugni, esposta a Cortina d’Ampezzo al Museo d’arte Moderna Mario Rimoldi mostra, ideata e curata sempre dal critico, dal titolo: I Mille di Sgarbi. Lo stato dell’arte contemporanea in Italia. Nel febbraio 2021 viene pubblicato dall’Università degli Studi Milano-Bicocca il libro Esperienze di vita nei giorni del silenzio – La Bicocca al tempo del Coronavirus, edito da Nomos Edizioni. Dal 2021 collabora con La Critica, con una rubrica attinente al mondo della fotografia.

Il nostro breve, ma intenso, viaggio ha rivelato un uomo anagraficamente, davvero, molto giovane, dotato tuttavia, da una grande esperienza maturata in campi apparentemente molto distanti. Impegni lavorativi che lui riesce a connettere con entusiasmo e voglia di fare, dimostrando ai suoi, se ancora ce ne fosse bisogno, come la fotografia, sia per lui, ben più di un hobby, ma un talento che non può mettere da parte.

Alessandro parlami di te…

Sono nato a Milano nel ’94 e cresciuto sotto l’egida del nonno paterno che era un torrefattore storico. Ho passato la vita a studiare in torrefazione e ho imparato a tostare caffè a otto anni. Mi sono laureato in giurisprudenza cum laude, proprio nel periodo in cui ho perso i miei nonni, col rammarico che non abbiano potuto condividere con me quel momento. Ho ereditato le quote del nonno nella torrefazione e soprattutto la responsabilità di portare avanti l’attività di famiglia e la sua storia.

La passione per la fotografia è sempre stata grande, ma resa complicata da genitori più propensi a educare al dovere che al piacere. Il nonno che era degli anni ’30, rispetto a loro, ha sempre creduto maggiormente nella possibilità di coniugare inventiva e passione, col lavoro. Sono, per mia natura, molto inquadrato e ho sempre messo tanto impegno in qualunque attività dallo studio allo sport.

Mio nonno mi ha indirizzato, guidato e a soli undici anni mi ha abbonato a dodici quotidiani italiani ed esteri, che sono la mia prima occupazione, ogni mattina. Mi alzo alle cinque e dopo la lettura dei giornali, mi alleno e comincio a lavorare subito dopo. Sono impegnato a rilanciare in ambito internazionale la Torrefazione, vado in studio da mio padre e poi mi dedico alla fotografia.

Vedere la musica: Alessandro Giugni Spirale
Vedere la musica: Alessandro Giugni Spirale

Quale posto ha la fotografia nella tua vita?

È la mia passione, nata per scherzo a undici anni quando mio nonno, con i punti della Esso, mi regalò una videocamera. Non era granché, anzi proprio terribile, ma per me, fantastica. Di fatto mi si spalancò un mondo e, da quel momento, una passione smisurata che avrebbe cambiato la mia vita. Ho cominciato a comprare attrezzature fotografiche dove i più grandi vanno a rifornirsi del materiale, attirato da quel luogo dove i “maestri” s’incontrano.

Lì ho acquistato libri e tutto quello che mi serviva con l’abitudine, che mi appartiene, a studiare, leggere e approfondire. Sono stato folgorato in particolar modo, dai libri di Gianni Berengo Gardin. Lui con i suoi Manicomi, scoperchiò un vaso di Pandora che portò alla legge Basaglia e alla loro chiusura; questi mi colpirono, facendomi riflettere e comprendere quale fosse la mia direzione. Mi sono specializzato in reportage, perché sono di fondo un umanista e ritrarre l’uomo nel suo contesto, è quello che mi affascina di più.

Una passione che ben presto è diventata davvero importante. Che cosa è successo?

Nel 2018 ho mandato una mail all’ufficio stampa di Sgarbi, non avendo grandi aspettative. Invece fu colpito da una mia fotografia, che entrò a far parte della mostra, curata dallo stesso Sgarbi, a Recanati a Villa Colloredo Mels per il due centenario di Leopardi.

Un’attenzione da parte di Sgarbi che si conferma l’anno dopo, scegliendo un’altra fotografia che esposi a Cortina d’Ampezzo al Museo d’arte Moderna Mario Rimoldi in occasione della mostra, dal titolo: I Mille di Sgarbi. Lo stato dell’arte contemporanea in Italia.

A marzo 2020, in seguito al diffondersi del Coronavirus, ho realizzato un reportage fotografico, col quale ho sentito il bisogno di testimoniare come Milano stesse cambiando. Milano al tempo del Coronavirus. Una cattedrale nel deserto, è diventato un libro regalandomi davvero tante soddisfazioni.

Alessandro Giugni Walking colors
Vedere la musica: Alessandro Giugni Walking colors

Se dovessi definirti come fotografo cosa diresti di te?

Sono un autodidatta e senza sosta, ho continuato ad approfondire ogni aspetto di questa che ritengo essere una forma d’arte, dedicandovi tutto il mio tempo libero. Nel corso degli anni ho scattato quasi esclusivamente in bianco e nero, utilizzando sempre di più, la pellicola, che oggi prediligo in assoluto. Mi piace che ci voglia tempo per visualizzare lo scatto, adoro confrontarmi con la chimica, padroneggiare ogni fase del processo creativo, imparando a gestire anche lo sviluppo.

Tramite la pellicola, inoltre, è possibile costruire un archivio “materico”, impossibile da realizzare attraverso il mezzo digitale. Mi ritengo un umanista intimista: mi piace capire chi ho davanti e cogliere chi sei, la fotografia è per me un modo per capire le persone. Non mi piace parlare di me, preferisco che a parlarne sia quello che faccio. Parlo con tutti e fotografo chiunque, mi sono accorto che ho fotografato tanti e mi sono perso quelli che avevo vicino.

Oggi mi dico che sono un pirla, ho ricordi di tanti viaggi, tante cose, ma mi sono perso i miei cari. In poco tempo sono andati via entrambi i miei nonni e l’unica foto che ho fatto a mio nonno l’ho scattata a Lido di Romagna, col suo berretto e la sua sigaretta. Chi la vede dice è proprio il nonno, ma io ho il rammarico di aver fatto solo quella.

Vedere la musica: Quarantine shadows
Vedere la musica: Alessandro Giugni Quarantine shadows

Che tipo di viaggio sarebbe con la tua fotografia?

Un viaggio tra il metafisico, l’esoterico e l’umano. La pellicola può catturare molto di più che il solo involucro. Il piano fisico racchiude le tre dimensioni, fisico dell’anima e spirituale; un po’ come quando si parla di chiari scuri, c’è sempre una scala di grigi che è impercettibile: allo stesso modo nel ritrarre una persona, si entra in quello che per ogni essere è un mondo a sé, che va molto al di là di quello che è il solo aspetto fisico. Anche la fotografia architettonica, che sia una casa o una Chiesa, nasconde molto di più e qualcosa di metafisico, che al primo sguardo può sfuggire. Quindi mi piace pensare che sia un viaggio al di là delle apparenze, cercando di cogliere qualcosa di più che il solo aspetto esteriore.

Cosa ti piace fotografare?

Documento Chiese, Abbazie, ma soprattutto cerco sempre e comunque, le persone. Mi piace parlare con tutti e, scattare fotografie: è un modo per conservare ricordi, che nel tempo irrimediabilmente, andrebbero persi. La fotografia rappresenta per me una continua e irrinunciabile ricerca. Voglio poter raccontare il mio tempo, lasciare traccia raccontando l’uomo, senza nascondere di lui pregi o debolezze, ma con la crudezza del reportage.

Quando devi essere fotografato, come reagisci?

Cerco di evitare che succeda. Pensa che ho stampato un album di una vacanza per la mia fidanzata e riguardandolo, mi sono reso conto che sembrava che ci fosse andata sola. L’unica eccezione è scattarmi una fotografia, riflesso in uno specchio. Questo mi diverte.

Alessandro Giugni La danza non contagia
La danza non contagia

Qual è il tuo rapporto con la musica?

Non sono contemporaneo, ho imparato a suonare il pianoforte da solo, da una tastiera da bambini, per gioco fino al pianoforte a coda. Devo ammettere, però, di aver scattato a feste di paese, dove ho preferito la gente che ballava o ascoltava, a chi faceva musica. Non ho tempo, probabilmente, per ascoltarla.

Cosa chiedi alla fotografia?

La possibilità di raccontare il nostro tempo finché avrò la forza di sollevare la mia macchina. Anche se i miei genitori, quando sviluppo le mie fotografie, sono ancora increduli ed esordiscono con “Ancora con le tue fotine?”. La mia fortuna è che posso fare il fotografo senza l’obbligo di doverci pagare le bollette, ma con la “leggerezza” di un hobby. Ho trasformato una passione in un lavoro, con la libertà di scegliere cosa fare. Ho una solida base di tecnica, ma ho studiato altro. A novembre, sarò presente nel catalogo dell’Arte Moderna Num 57, quindi anche grazie all’incontro con Sgarbi e nonostante l’incredulità dei miei, ho raggiunto un obiettivo importante del quale vado davvero fiero.

Carlos Solito il fotografo- narratore che ama paesaggi e incontri umani

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Parco Naturale Regionale dei Monti Picentini: la valle del Calore e il monte Tuoro (a destra) e il Terminio (a sinistra) visti da Nusco (Av)

Carlos Solito scrittore, fotografo, giornalista e regista, nato a Grottaglie in provincia di Taranto, che sta – come ama sottolineare- sul ciglio delle vertigini. È un vero viaggiatore, nel senso più letterale del termine ma non solo, infatti ha cominciato a “viaggiare” con la fantasia, già da bambino quando intorno a lui c’era solo Puglia. Giramondo, collabora con numerosi magazine e quotidiani realizzando reportage di viaggi e incontri. Dirige spot pubblicitari, video clip musicali e cortometraggi.

Il suo ultimo lavoro Terra Cotta, girato interamente in Irpinia, è il viaggio nella vita di un bambino solitario che si avvicina alla paura per liberare la fantasia. Ha pubblicato una ventina di volumi illustrati per i più importanti editori italiani. Ha firmato i romanzi Sciamenescià, La Ballata dei sassi e il volume Sogno a Sud. Salvator Dalì a Matera. In ottobre uscirà un romanzo con Sperling, un viaggio dantesco nelle grotte d’Italia, a Natale un libro fotografico per Rizzoli e a marzo un altro ancora. Come se non bastasse sta lavorando a una serie televisiva, una mostra a Tel Aviv e in Cina.

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Aswan: Jasmin Shahinaz – Palazzo del Profumo

Carlos Solito è tutto questo e scrivere di lui, per un’artigiana di parole come la sottoscritta, una bella impresa. Ma Carlos è in realtà un vero viaggiatore e come tale capace di essere accogliente e comunicativo, come tutti quelli che sono abituati agli incontri e alle esplorazioni, di luoghi e anime. La nostra chiacchierata ci ha fatto perdere la nozione del tempo e insieme, abbiamo attraversato luoghi e distanze.

Carlos Solito. Un nome che evoca paesi lontani: solo un caso o una premonizione?

Solito è un cognome spagnolo, mia madre lo scelse perché suonava bene e soprattutto per amore di Carlos Santana. In realtà, per dirla tutta, il mio nome completo sarebbe Carlos Diego Solito, ma poiché il calcio non mi è mai interessato, appena ho potuto, l’ho “dimenticato”, anche se mia madre, ogni tanto, me lo fa ancora notare.

Carlos presentaci Carlos Solito…

Mi piace definirmi con unica parola: un narratore. Questa parola mi appartiene perché umile come le mie origini, semplice come la mia famiglia (che è anche piena di casini). Da bambino mi mandavano a bottega, che per me era fatta di parole, una fucina di idee, ma anche di brace e di fuoco. Sono nato a Grottaglie un luogo di caverne, dove omoni in canotta infornavano le loro terrecotte.

Andare dal falegname era un viaggio onirico, che facevo osservando il gioco d’incastri utilizzato per costruire con il suo silenzioso operato, con i suoi occhi espressivi e i suoi silenzi. Tutto parte da lì da quegli anni d’infanzia paesana: sono stato forgiato come un vaso con le argille di quel paese, che mi porto dentro.

Una vera chiamata alle “arti” per te sei dimostrazione vivente, di come la creatività non conosca confini o separazioni. Quale di queste “sfumature” è dominate?

Per prima è arrivata la scrittura, che detiene ancora il primato: che sia un viaggio, una direzione creativa è lei ad avere la conduzione. Una sorta di preghiera sciorinata con l’inchiostro. Tutte le volte che preparo una campagna, anche l’ultimo cortometraggio Terra Cotta, omaggio a quando andavo nelle botteghe di ceramica, parte tutto dalle parole. Ho pubblicato il mio primo romanzo a 17 anni, cercando di far comprendere alla mia famiglia che quella era la mia strada.

Vedere la Musica: Carlos Solito fotografo-narratore 1
Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano: Capo Palinuro (Sa)

Alle scuole elementari, scrivevo fino a tarda ora, cosa fai? – mi chiedevano- Scrivo un libro, era la risposta. Il mio modo di stare al mondo, un po’ stralunato era quello. Mi sono iscritto, con poca convinzione e solo per la compagnia degli amici, ad un Istituto professionale Turistico. Dopo ho frequentato Conservazione dei beni culturali a Lecce, senza finirlo, sapevo di dover fare altro. e, non ho finito.

Sono partito per la Croazia con una spedizione speleologica, dopo quindici gg gli altri andarono via, io volevo capire di più della Dalmazia con l’istinto e la curiosità che mi ha sempre accompagnato anche solo con la fantasia quando viaggiare era solo nei miei pensieri.

Quando hai capito che, finalmente, stavi realizzando i tuoi sogni?  

La rivista Marco Polo pubblicò il mio primo lavoro e i miei reportage, ma la grande soddisfazione arrivò con Nicoletta Salvatori di Airone, lo stesso che compravo mettendo da parte la mia paghetta, quando pubblicò un mio servizio.

Quando hai fatto la prima valigia per partire?

Tutto parte dalla scrittura, i primi viaggi gli ho fatti da fermo. I primi viaggi, come conquista di lontananza sono avvenuti con le parole. In realtà, ho una fottuta paura di fermarmi. Colleziono libri, sculture, poltrone che acquisto in giro per il mondo e vorrei avere una casa dove assegnare loro un posto. Ho vissuto un’infanzia bellissima di fantasia ed esplorazioni.

La Puglia è una grande tavola dove l’orizzonte è quasi sempre uguale, un tracciato piatto che però a volte si interrompe verso il basso, con montagne rovesciate, le gravine, piccoli canyon ricche di tutto l’erbario mediterraneo. Ceste di calcare con natura, silenzi e tracce del passato. Noi da ragazzini, oltre a salire sugli ulivi dove scrutavamo l’orizzonte, ogni tanto senza scarpe con i piedi a mollo nel vuoto, studiavamo gli itinerari possibili. Sfogavamo così, il nostro senso di scoperta che è innato nell’uomo.

Vedere la Musica: Carlos Solito fotografo-narratore 4
Monti Carseolani – Carsoli (Aq) frazione di Pietrasecca: l’ingresso della grande risorgenza dell’Ovito

La Puglia oltre al castigo di essere piatta, ha il castigo dello scirocco, che offusca tutto nascondendo ogni contorno. Quando finalmente, arrivava la tramontana o il maestrale, aspettavamo che l’orizzonte si schiarisse: era come una prima cinematografica, dove potevamo finalmente vedere paesaggi immensi, lontani che, normalmente, non erano visibili. Per questo desiderio, ho cominciato ad esplorare le grotte, le montagne e i loro ventri partendo da quelle più vicine a casa, per poi allargare i miei interessi.

Carlos come diventa fotografo?

Nasce in quegli anni adolescenziali, in cui vedendo quelle grotte e avendo tanti amici che non amavano leggere, al racconto orale non avrei potuto aggiungere i miei diari, ma solo le foto. Ho sempre amato Airone e mettevo da parte i soldi per comprare ogni mese la mia preziosa copia. Sono molto affezionato alle mie macchine Canon, non amo molta tecnologia e sono molto diffidente verso chi si nasconde dietro a mega apparati che si porta appresso.

Oggi la gara è a chi è più performante, per dimostrare di essere i migliori. Sui miei set, ogni tanto è transumata, questo genere di persone e, devo dire, sono risultate le più sterili. Con me porto solo l’indispensabile io sono un reporter, prendo e vado. Ciò che ritengo importante e fondamentale è essere tutto facendo pronome con gli altri, così si fa squadra.

Il viaggio non lo intendo mai come un piacere. Il piacere è stare con i miei amici, a casa sul divano, le orecchiette, i ricci di mare. Il viaggio è una necessità vitale di scoprire. Uno stimolo alla creatività e un bulimico senso di scoperta, una primordiale necessità, che c’è stata sempre in me.

Oggi credo di essere l’uomo più libero del mondo per questa necessità che ho sempre avuto. Non c’è libertà senza necessità.

Carlos, alla fine quel libro che dicevi di scrivere già alle elementari, lo hai scritto per davvero, anzi ben più di uno…

Ho scritto La Ballata dei Sassi, Sciamenescià: Strade, randagi, venti e souvenir di Puglia, Sogno a Sud. Salvator Dalì a Matera. Con quest’ultimo ci ho letteralmente perso la testa e pensa che Dalì a Matera, non c’è mai stato. Mi piaceva, però, l’idea di abbinare al surrealismo rupestre dei sassi il padre del surrealismo metafisico. In genere mi piace misurarmi con chi mi ha preceduto, è come voler arricchire la mia conoscenza in una sorta di overdose da viaggio.

Cosa desideri per te?

Mi piacerebbe avere tempo da dedicare a qualcosa che abbia a che fare con la terra, realizzando il sogno di piantare qualcosa e vederlo crescere.

Parlami del tuo lavoro…

Collaboro con un bel po’ di magazine, riviste di viaggi, natura, cibo, costume tipo, guarda ne ho un po’ lì, te li leggo: Vanity Fair, Style del Corriere della Sera, tante riviste gastronomiche, per le quali ho imparato a fotografare piatti, il vino, che prima ho imparato a bere e poi a fotografare. Famiglia Cristiana, Sport Week, Gulliver, Tutto Turismo, Travel, Dove, D di Repubblica, National Geographic Travel. Quindi questa è stata la mia fortuna e necessità, dovendo vivere di scrittura e fotografia, quando si trattava di cibo, mi preparavo, studiavo. Questo perché volevo capire e vedere il cibo da un altro punto di vista, un viaggio fantastico attraverso i colori, i profumi, la mise en place.

Chiedere a te, viaggiatore e reporter per nascita, quale sia il viaggio con le tue fotografie, potrebbe sembrare inutile. Non lo è, perché se c’è una cosa che mi è stata chiara da subito è che in tutto questo tuo andare tra arte e luoghi, c’è un fil rouge che lega ogni parola, ogni emozione, ogni passo, ogni immagine …

Il fil rouge è quello del reportage, non fotografo mai in studio. Mi sa di chiuso, di limite. Mi piace andare nella natura, con le luci naturali e zero luci di riempimento. Amo paesaggi e incontri umani. Un contadino o un pescatore perderebbe tutto: non avrebbe più negli occhi il suo mondo, dando di lui un’interpretazione viziata. Quando metto su set tipo quello per Dalì, è un’impresa: ho fatto un lavoro di quasi due mesi con una troupe pazzesca. Io cercavo la foto giusta e trovo nobile mettere tutta la propria creatività, al servizio del set. Io regolo tutto il mio lavoro fotografico sulla stessa colorimetria, dettagli che sfuggono ai più ma mi fanno sentire appagato.

Vedere la Musica: Carlos Solito fotografo-narratore 2
Ulivi nella piana di Fasano (Br)

La musica accompagna i tuoi viaggi?

Sempre e la mia colonna sonora è una raccolta di Leonard Cohen, Hans Zimmer, Rino Gaetano, Califano, Franco Battiato, Ezio Bosso e la musica di un caro amico anche lui di Grottaglie, giramondo come me, pianista e compositore, filosofo e concertista, Ciro Gerardo Petraroli.

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Fabrizio De Blasio: “Con la fotografia cerco di far vedere “quello che è invisibile agli occhi”

Vedere la Musica: Fabrizio De Blasio
Vedere la Musica: Fabrizio De Blasio – I lavori che mi hanno segnato di più e che lasceranno una traccia indelebile, sono state delle campagne no-profit, di sensibilizzazione per le adozioni a distanza in luoghi dimenticati come Bolivia, Madagascar, Pakistan.

Fabrizio De Blasio, romano, quando adolescente riceve in regalo la prima macchina fotografica, è amore a prima vista. Da lì un destino tracciato e una “partenza” contromano, visto la carriera militare del padre che lo avrebbe visto volentieri indossare la stessa divisa.

Una carriera che lo porterà a collaborare con i più grandi fotografi italiani e stranieri, da Michel Comte, Walter Chin, Oliviero Toscani, Gian Paolo Barbieri ad Alberta Tiburzi.

Oggi aspetto il suo rientro da uno dei tanti set dove lavora e non è difficile intuire da subito, come la fotografia e l’arte siano un tutt’uno in lui: un viaggio dove la sfida è mostrare qualcosa che “è invisibile” agli occhi degli altri.

La sua, una galleria di ritratti importanti dai Premi Oscar Colin Firth, Marion Cotillard a Gina Lollobrigida, Ornella Muti, Terence Hill, Lino Banfi, Raul Bova, Alessandra Mastronardi, Pierfrancesco Favino, Gianni Morandi e moltissimi protagonisti del cinema italiano e internazionale.

Fabrizio De Blasio parlami di te…

Sono un figlio degenere, perché mio padre generale dell’esercito, avrebbe desiderato che seguissi le sue orme, ma a quindici anni, con la prima macchina fotografica, ho deciso di fare altro nella vita. Ho frequentato il liceo scientifico e poi, solo per temporeggiare e non partire per il servizio di leva ancora obbligatorio, mi sono iscritto all’università.

Era chiaro che mio padre non avrebbe usato la sua posizione per non farmelo fare, anzi! Ad un certo punto lessi che a Roma, aveva aperto uno studio fotografico importante e proprio lì, cominciai facendo lo schiavo. Dal mio punto di vista uno schiavo di lusso visto che avevo il privilegio di spazzare davanti a Richard Avedon, uno dei fotografi di moda più grandi al mondo, in quello che era lo studio di riferimento di riviste di moda come Vogue e Harper’s Bazaar.

Da lì, per qualche anno, feci l’assistente per poi, piano piano, cominciare a fare i miei primi lavori. Il militare, alla fine, l’ho fatto, l’unica cosa nella quale mio padre mi ha dato una mano, è stato permettermi di farlo come fotografo dell’esercito. Devo riconoscere che è stata un’esperienza formativa, che ha avuto il suo perché: con buona pace di tutti, in realtà ho fatto quello che mi piaceva onorando anche la divisa.

Vedere la Musica
Gina Lollobrigida

Ti sei mai pentito delle scelte fatte?

Non mi sono mai pentito, ma tante volte mi sono chiesto se avessi fatto la scelta giusta. La fotografia è un hobby meraviglioso, il difficile sta nel farlo diventare il mestiere col quale pagare le bollette. Sarebbe disonesto dire che non sia stato impegnativo, ma quello di cui sono assolutamente certo, è che sia il mio mestiere.

Che fotografo sei?

Nasco ritrattista, la maggior parte del mio lavoro è questo. Il cercare l’anima del soggetto, non è una leggenda metropolitana, è vero ed è l’obiettivo di chi fa questo genere di fotografia, ma si scontra con determinati contesti dove hai pochissimo tempo e spazio, dovendoti accontentare.

Quando hai un grande attore da ritrarre, sarebbe molto bello poter “arrivare” a oltrepassare quella soglia, per vederlo davvero, ma solo in alcuni casi, è possibile. È molto bello quando si instaurano dei rapporti continuativi nel tempo, che spesso sfociano anche in bellissime amicizie.

Con Gianni Morandi, per esempio, ci siamo conosciuti sul set della fiction L’Isola di Pietro, da lì lui mi ha voluto anche per i concerti e oggi ci sentiamo spesso anche solo per il piacere.

Vedere la Musica: Fabrizio
Gianni Morandi

Quando guardi nell’obiettivo, cosa cerchi?

Quando è la prima volta, innanzitutto, voglio arrivare all’appuntamento preparato: studio la biografia, guardo gli scatti che altri hanno già fatto, cercando di trovare appigli utili a capire chi ho davanti e rompere il ghiaccio, per metterlo a proprio agio il più possibile. Utilizzo anche la musica, che è di notevole aiuto, sempre.

Devo dire che ogni situazione è storia a sé e non ci sono regole, ma identità uniche, ma questo è il bello di un mestiere che non annoia mai. Lavorando spesso con gli attori, mi sono reso conto che non necessariamente sono a proprio agio davanti all’obbiettivo. Sul set sono abituati a dimenticare la macchina da presa, ci sanno convivere.

Inoltre, quando stanno recitando hanno comunque un ruolo da interpretare che mette al riparo da occhi indiscreti il loro io, che invece nel ritratto vado a svelare. Quando poi il soggetto è uno scrittore o un manager, l’impresa è ancora più complicata: il loro mestiere è un altro e soffrono nel sentirsi fuori posto.

Hai avuto il privilegio di fotografare premi Oscar, di stare su set prestigiosi delle fiction più amate e di film importanti. Quali sono, tra i tanti, i lavori che ti hanno segnato di più?

Ho girato davvero ovunque nel mondo e ho scattato fotografie importanti che mi hanno dato molta soddisfazione professionale. I lavori che mi hanno però, segnato di più e che lasceranno una traccia indelebile, sono state delle campagne no-profit, di sensibilizzazione per le adozioni a distanza in luoghi dimenticati come Bolivia, Madagascar, Pakistan.

Fabrizio De Blasio
Colin Firth

Questi reportage, mi hanno scaraventato dentro a realtà crude, che non riusciamo neanche ad immaginare. Essere lì e vedere di persona, toccando con mano, ha un sapore amaro: la mancanza di elettricità, per esempio, che per noi è data sempre per scontata, al punto che un blackout anche di pochi minuti, può destabilizzarci (soprattutto se abbiamo il cellulare scarico!) è all’ordine del giorno.

Ricordo che portammo in Madagascar un container di biciclette, ed io stupito, chiesi come mai di tutto quello che potevano avere necessità si portassero cose che mi sembravano di secondaria importanza. Mi fu spiegato che i bambini facevano tre, quattro chilometri per andare a scuola tutti i giorni a piedi andata e ritorno e l’avere una bicicletta li avrebbe facilitati non poco.

Questa rubrica è un Invito al viaggio, un viaggio che idealmente intraprendiamo attraverso gli scatti del fotografo che ci permette di guardare attraverso non solo il suo obiettivo, ma quella che è la nostra camera oscura, l’anima. Con te Fabrizio, che viaggio facciamo?

Ci fu un grande fotografo che disse, una cosa interessante: per me l’ideale sarebbe fotografare con gli occhi, solo come vedi tu, senza dover interagire con un mezzo tecnico. Per me è fondamentale avere una suggestione visiva, immediata.

Quando si scattava in pellicola bisognava avere davvero una grande professionalità, oggi il professionista deve essere in grado di dare di più, perché chiunque, grazie alla tecnologia, può fare delle fotografie “decorose”.

Devi davvero mostrare quello che agli altri non è dato di vedere, nonostante apparecchiature sofisticate. Sarebbe troppo semplice e banale, possedere tutti gli ingredienti di un grande chef, la sua cucina e diventare stellati: la fotografia è arte.

 Fabrizio De Blasio
Raul Bova

Cosa preferisci, quando puoi fotografare liberamente?

Non ho dei generi preferiti, mi lascio attrarre dalle cose più svariate, che può essere il fiore, il rilesso nella pozzanghera. In una pausa di un set, su Ponte Sant’Angelo, me ne stavo seduto con la macchina fotografica per terra.

Mi colpì in quella posizione, la varietà di calzature dei turisti. Vedevo solo piedi, col taglio sotto il ginocchio: ho scattato tantissime fotografie casuali, senza spostare la macchina e senza guardare nell’obbiettivo.

Ci sono scuole di pensiero molto diverse: poca post-produzione o al contrario una sorta di make-up fotografico. Le fotografie di Fabrizio De Blasio cosa prediligono?

Essendo nato con la pellicola e lavorando molto con l’editoria, dove utilizzavamo la diapositiva, che aveva molta poca tolleranza, sono abbastanza purista. La foto devi saperla illuminare e farla bene a partire dallo scatto. È lì che devi dare qualcosa in più, devi cogliere la sua essenza.

In quale ambito lavori maggiormente oggi?

Ho sempre fatto incursioni sui set, ma in questi ultimi anni, devo dire che lavoro molto con le produzioni, perché è l’unico settore che non si è mai fermato. Anche nel periodo di pandemia, chiusi come in una bolla e tamponi come se piovesse, ne ho collezionati più di cento cinquanta, è andato avanti.

 

Vedere la Musica: Fabrizio De Blasio 1
Flavio Insinna 2016

Ti lasci fotografare di buon grado?

Non mi punto una pistola alla tempia, non è una tragedia, ma dopo due minuti mi sono stufato. Sto meglio dall’altra parte. Mi sono divertito di più, lo ammetto, quando mi è stato chiesto di interpretare il fotografo sul set!

Ci salutiamo e nel farlo, Fabrizio mi confida di avere un sogno nel cassetto: un progetto legato alla polaroid con cui fare arte. La sua determinazione è stata la prima a colpirmi e sono certa che presto anche a Roma o in qualche importante Galleria del mondo, troveremo realizzato questo suo sogno. Buon viaggio e buon vento, Fabrizio. Grazie di tutto.

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