Francesco Guccini, la sua ultima fatica letteraria s’intitola “Tre cene (l’ultima invero è un pranzo)” pubblicato da Giunti Editore

Francesco Guccini, modenese, classe 1940, da quando ha smesso di pubblicare dischi sforna un libro dopo l’altro.
Amate essere affabulati? In questo caso queste tre storie saranno pane per i vostri denti.
Tre cene che rappresentano un viaggio dagli anni Trenta ai giorni nostri. Due dei racconti sono inediti e il terzo uscì qualche anno fa, nella antologia “Racconti italiani del Novecento” curata, per i Meridiani Mondadori, da Enzo Siciliano.
Oggi, le “Osterie di fuori porta” non esistono più. E, se qualcuna la trovate, sicuramente è diventata una “Hosteria”. Forse è questo il motivo che indotto Francesco Guccini ad ambientarle all’interno di una trattoria, segno che il luogo, in fondo, non così è importante perché quello che conta è il tempo e, soprattutto, il destino degli uomini.
Ovviamente non si tratta di tre cene qualsiasi. Le tre cene, ma una è un pranzo, narrate dal cantastorie padano possono rientrare negli annali, muovendosi fra chili di polenta bollente tagliata, come da tradizione, con il filo di cotone, e un sugo rosso con pezzoni di carne che gocciolano grasso e olio. Il tutto accompagnato da conigli e polli arrosto. Ma si tratta di cene annaffiate da fiumi di vino.

Tre cene, un viaggio nel tempo perché la prima, “La cena”, vede coinvolti dei giovani sul finire dei ’30, giovani che, nonostante la povertà, vogliono festeggiare l’arrivo del Natale con una cena di quella che alla fine ti vietano di alzarti con disinvoltura.
La seconda invece, “Il ritorno”, scopre il narratore e la sua memoria in un episodio che lo vede protagonista, nel momento della sua maturità, sedersi al tavolo per una cena con solo uno degli amici degli anni suoi primi, perché le pieghe della vita e gli accadimenti, anche negativi, si sono portati via gli altri due.
La terza, “L’eclissi”, no. Come abbiamo già scritto e come il titolo del libro anticipa, non si tratta di una cena. Gli anni passano e il narratore incarna con questa scelta l’età in cui la sera si preferisce “stare leggeri”, come si diceva una volta, e, magari, andare a letto presto.
Forse è vero. Le cene tra amici, quelle in cui ci si perde tra sogni e racconti, quelle in cui il bicchiere di vino scandisce un tempo che non è necessario controllare, quelle di cui poter parlare nei giorni dopo, soprattutto con chi non c’era, sono “cose da giovani”.
Come si può rinunciare ad una tavola apparecchiata con una tovaglia bianca profumata, bicchieri ricolmi di vino e una serie di portate scelte da Francesco Guccini e realizzate sul posto dai ristoratori del suo cuore?

È impossibile soprattutto quando sopra le nostre teste ci sono, appese ordinate file orizzontali e, una serie di lampadine accese, di quelle che si vedevano nei circhi e nei luna park e che ci rimandano a certe scene dei film di Fellini, di Jodorowsky, di Kusturica e di Lynch.
Non è certo la stessa cosa sentir cantare Guccini e leggerlo, non si sente la sua “erre” moscia e fluidificata e non si percepisce quella sorta di cadenza dialettale che trasforma in incedere anche i suoi silenzi.
Non si vede nemmeno il fiasco di vino rosso posato accanto a lui ma rimangono le sue favole, quelle storie che sembrano iniziare e non finire, quelle sue favole dense di Storia, quella con la “s” maiuscola, quella degli uomini.
E l’autore, in questo “Tre cene”, trasforma in favola il Novecento, una favola piena di divertimento ma anche di disincanto.
Una favola che contiene la storia degli uomini, uomini autentici, con pregi e difetti come le persone normali e, inevitabilmente, pieni di rimpianti che però aiutano, in vecchiaia, a sentirsi ancora vivi.