Elsa Martignoni: “Un Paese senza arte e cultura è un Paese ferito”

A tu per tu con la violinista milanese Elsa Martignoni, per parlare del suo impegno professionale e delle difficoltà che hanno colpito il settore della musica dal vivo

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Elsa Martignoni si racconta ai lettori di Musica361, dall’impegno musicale allo stop forzato causa Covid

Il violino, strumento dell’anima. Attraverso le sue corde vibrano le emozioni e si riflettono i nostri stati d’animo più reconditi. Tra le musiciste che meglio esaltano l’ecletticità di questo strumento, troviamo Elsa Martignoni, di formazione classica ma di attitudine sperimentale, che ha saputo coniugare tradizione e innovazione grazie al suo inseparabile violino elettrico. Abbiamo il piacere di ospitarla in questo quinto episodio della rubrica “Protagonisti in secondo piano.

Come e quando ti sei avvicinata alla musica?

Da bambina, avevo cinque anni, i miei genitori erano grandi appassionati di musica classica. Il primo approccio è stato col pianoforte, per poi iniziare con il violino. Negli anni ho portato avanti lo studio di entrambi gli strumenti fino all’ammissione in Conservatorio, per poi abbandonare il pianoforte tra il primo e secondo anno, concentrandomi sul violino che consideravo più nelle mie corde.  Sai, fin da piccolissima, in realtà, volevo fare la ballerina classica, un discorso che ho comunque sviluppato negli anni suonando, perchè con il violino elettrico sono fondamentali i movimenti, per cui mi esibisco danzando, riuscendo ad esprimere in simultanea le mie due grandi passioni.

Cosa possiedono in più quelle quattro corde e quell’archetto che tutti gli altri strumenti non hanno?

Bellissima domanda. In effetti, da quelle quattro corde puoi tirar fuori un universo, un mondo di melodie e di suoni. Nonostante sia uno strumento monodico, il violino può anche essere polifonico, con più accordi, in questo un grande maestro è stato Bach. Con l’archetto si possono trovare soluzioni diverse, sfumature e colori incredibili. Secondo me, il violino è uno strumento magico, versatile ed eclettico, perchè abbraccia tutti i generi possibili: dal classico al blues, passando per il jazz, il country, il folk. Personalmente ho suonato anche pop, R’n’B, electro house, rock, davvero di tutto. Negli anni ho scoperto per caso di saper improvvisare, prendendo ad orecchio la nota, come una specie di freestyle.

Oltre a toccare vari generi, il violino attraversa sicuramente anche stati d’animo diversi. Erroneamente si pensa che sia uno strumento triste, mentre invece non lo è affatto…

Assolutamente, il violino può abbracciare tutti gli stati d’animo e far vibrare le nostre emozioni, non a caso viene chiamato lo strumento dell’anima. I grandi compositori sono riusciti a sottolineare questa flessibilità. Pensiamo a Paganini, che ha saputo esaltare le capacità tecniche e interpretative di questo strumento, oppure allo stesso Bach che cercava di dare equilibrio alle emozioni attraverso l’arco. Certo, la filmografia forse non aiuta, mi viene in mente il tema centrale della colonna sonora di “Frankenstein Junior” (sorride, ndr), ma il violino può rappresentare davvero tutti gli stati d’animo del mondo.

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Come si è evoluto il tuo lavoro nel tempo? 

Dopo il diploma, sono entrata subito a far parte di un’orchestra sinfonica. Per una decina di anni ho proseguito la mia carriera classica. Ad un certo punto, per puro caso, una mia amica organizzatrice di eventi mi ha convinta ad esibirmi in una discoteca, buttandomi letteralmente sul palco del Propaganda, un noto locale che c’era qui a Milano, in mezzo ad un casino bestiale, un sacco di gente. Tutti mi guardavano con delle aspettative enormi, io non sapevo esattamente cosa fare. Il deejay ha iniziato a suonare un po’ di house, all’improvviso ho cominciato ad accompagnarlo, in maniera molto naturale. Da quella sera mi si è aperto un mondo.

Così hai cominciato ad avere una specie di doppia vita, di giorno alla Scala e di notte all’Alcatraz…

Esattamente (ride, ndr), per qualche anno sì. Finivo il concerto in teatro alle 10.30 e andavo in discoteca a suonare fino alle 5.00. La direzione dell’orchestra dove lavoravo non amava molto questa mia seconda attività diciamo, sotto molti punti di vista in Italia siamo molto indietro, c’è un rigore che da una parte può sembrare giusto, ma dall’altra eccessivo. Ad un certo punto mi sono ritrovata davanti ad un bivio, non ti nascondo che è stata una scelta piuttosto sofferta, perchè per me una cosa non escludeva l’altra, amo allo stesso modo sia il violino classico che quello elettrico. Alla fine della fiera, nel 2010 ho lasciato l’orchestra sinfonica, una decisione di cui non mi sono mai pentita.

Negli anni hai calcato i palcoscenici dei teatri più prestigiosi del mondo, tra questi ce n’è uno meno blasonato di altri, ma che per noi italiani ha un grande valore affettivo. Mi riferisco all’Ariston di Sanremo, hai suonato nell’orchestra del Festival nel 2018 e nel 2020. Ci racconti com’è andata?

Dopo tanti anni sono tornata a suonare in un’orchestra, sicuramente è un’esperienza per me molto importante, anche se molto stancante. Calcola che le prove partono più di un mese prima a Roma, i musicisti vengono convocati negli studi Rai, per circa dieci ore al giorno. Tra le canzoni in gara, quelle degli ospiti, le cover, gli stacchetti… sono stati circa duecento i pezzi da preparare per l’ultimo festival. E’ molto bello vedere l’evoluzione dei cantanti dalle prove alla messa in onda. Quest’anno mi hanno molto colpito Levante, Piero Pelù, Tosca, Irene Grandi, poi mi hanno sconvolto Rita Pavone per la sua grinta e Marco Masini per la sua precisione e preparazione, lui è un fonico mancato.

Il Festival di Sanremo è un po’ una liturgia, a livello di forma ogni anno è sempre uguale, tutto è programmato fino all’ultimo dettaglio, c’è una scaletta, voi sapevate esattamente cosa fare e a che ora di preciso. Poi però, raramente, a volte accade l’imprevisto, proprio come lo scorso anno. Sai a cosa mi sto riferendo… cioè, tu eri a pochi metri dal palco, cosa hai pensato in quel preciso momento?

Non puoi capire, in un nano secondo mi ha scritto chiunque! Guarda, io all’inizio non suonavo, nella canzone i violini entravano dopo, per cui ho realizzato subito cosa stesse accadendo. Mi sono accorta immediatamente che Morgan stesse cambiando il testo, però ero convinta che ce l’avesse con noi orchestrali, ho pensato che ci volesse offendere pubblicamente dopo la questione legata all’arrangiamento della cover del giorno prima. La sua stesura era ineseguibile, per cui ha dovuto rifare la partitura più volte. Così ho pensato che, i versi del suo testo modificato, fossero indirizzati a noi che, magari secondo lui, non siamo stati “capaci” di eseguire il suo spartito.

Ovviamente, io e il mio compagno di leggio ci siamo guardati con gli occhi sgranati, tipo cartone animato giapponese (ride, ndr). Poi quando Bugo se n’è andato via e il direttore ha fermato l’orchestra, lì mi è venuto un crampo allo stomaco, siamo rimasti col fiato sospeso fino a quando è entrato Fiorello e ci ha fatto sorridere. Insomma sì, è stato un interminabile minuto di panico. Il brutto è stato quando Amadeus, da regolamento, ha dovuto annunciare la loro eliminazione dalla gara. E’ stato avvilente, non dovrebbe mai accadere una cosa del genere quando si parla di musica, di arte e di spettacolo.

Elsa Martignoni

Venendo all’attualità, il Covid non lo stai soltanto subendo, come tutti, ma lo hai pure avuto. Quindi, ti chiedo come stai affrontando questo momento sia dal punto di vista personale che professionale?

Sì, ho preso il Covid esibendomi ad un matrimonio agli inizi di ottobre, facendo il mio mestiere. Era da mesi che non avevo la possibilità di lavorare, perché poco dopo Sanremo c’è stato il lockdown e tutti i lavori che avevo in programma sono saltati. Ho ripreso a fare qualcosina d’estate, fino a quando il Covid mi ha fermata. Insomma, sono stata male, soprattutto all’inizio, per fortuna non sono andata in ospedale, non ho avuto problematiche respiratorie, però è stata dura, non avevo forze, non riuscivo ad alzarmi dal letto. In più è stata lunga, fisicamente ne sono uscita dopo circa un mese, ma sono rimasta positiva per cinquanta giorni, dopo aver fatto più tamponi. Tutt’ora non ho olfatto e gusto, questa cosa mi fa sentire un po’ strana.

Dal punto di vista professionale, invece, essendo freelance non ho un fisso mensile, per cui star fermi è un danno enorme per chiunque si trovi nella mia stessa situazione. La nostra categoria di musicisti è molto penalizzata perchè non abbiamo modo di reinventarci, se non cambiando completamente mestiere. E’ dura, suonare dal vivo per me è tutto, l’idea di non potermi esibire per chissà quanto altro tempo è straziante. E’ necessario sostenere la musica, perchè un Paese senza arte è un Paese ferito. Sarò impopolare ma, ragazzi, non può esistere solo il calcio. L’Italia è considerata da secoli la culla della cultura agli occhi del mondo, mentre oggi non si legge e non si va più nei musei. Ti giuro, sono letteralmente atterrita.

Cosa ti manca di più dell’attività live e del contatto con il pubblico?

Incrociare lo sguardo di persone emozionate dal mio violino, lo considero un vero e proprio linguaggio, perché mi esprimo suonando. Rendere felici gli altri è la cosa più bella che posso realizzare nella vita, questo mi manca tantissimo. Sai, durante il primo lockdown ho realizzato diverse dirette, ma alla fine non ce la facevo più a suonare davanti al mio iPhone. Spero con tutto il cuore di poter tornare presto ad esibirmi dal vivo.

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Nico Donvito
Nico Donvito
Appassionato di scrittura, consumatore seriale di musica italiana e spettatore interessato di qualsiasi forma di intrattenimento. Innamorato della vita e della propria città (Milano), ma al tempo stesso viaggiatore incallito e fantasista per vocazione.
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