Radici. Torino e il jazz

Da sempre terra di musica, patria del bel canto e di celebri compositori, la nostra penisola ha perso un po’ di attenzione agli inizi del Novecento con l’avvento di nuovi generi, che in meno di un secolo hanno stravolto la concezione di musica stessa.

Radici. Torino e il jazz
Fred Buscaglione.

Sebbene Stati Uniti e Inghilterra detengano il primato assoluto, una grande quantità di talentuosi artisti e di veri e propri movimenti sono riusciti a influenzare la scena mondiale del secolo scorso, ritagliando un posto all’Italia tra le nazioni gotha della musica. Tornare alle radici delle sonorità che ora fanno parte della nostra cultura, ci permette di comprendere meglio ciò che ascoltiamo oggi e significa inoltre riscoprire città, persone e storie quasi dimenticate.

Fu qualcosa di unico quel che successe a Torino il 15 e il 16 gennaio del 1935, quando Alfredo Antonini, collezionista e studioso della musica, invitò Louis Armstrong per due concerti.

In quel periodo la fama mondiale del jazz era cosa recente (gli albori risalgono al 1917, anno in cui l’Original Dixieland Band di New Orleans registrò Livery Stable Blues, primo brano jazz della storia), anche a causa dell’allora lenta distribuzione musicale e del fatto che fosse suonato e composto prevalentemente da persone di colore. Tuttavia l’interesse nel capoluogo piemontese per il genere era già presente nel 1935, come testimoniano il primo hot club italiano (progenitore dei jazz club) inaugurato due anni prima e le “audizioni commentate” di 78 giri presso il Caffè Crimea, proposte dal già citato Antonini.

L’esibizione di Luigi Fortebraccio, ebbene sì signori, Louis Armstrong veniva chiamato in quel modo, fu però un vero colpo di fulmine e dopo appena due concerti il jazz si impossessò di Torino.

Quasi un amore clandestino, con il governo Mussolini che osteggiava la “musica dei selvaggi”, ma abbastanza profondo da non impedire la formazione di una buona base di musicisti e interessati. Il vento però cambia nel 1941: gli Stati Uniti presero parte alla Seconda guerra mondiale e la messa al bando dei dischi jazz, blues e delle produzioni americane in generale fu automatico. Poco importa se Goebbels nel 1940 avesse dato vita a un’orchestra jazz o se Mussolini ascoltasse in privato gli artisti d’oltreoceano, quella musica non poteva venire suonata né commercializzata.

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Chet Baker al Caffè Ler.

Nonostante le limitazioni del regime, i suoni incriminati non erano spariti, e a questo proposito è particolarmente interessante una dichiarazione di Paolo Conte, nato e cresciuto ad Asti, il quale confermò che «era difficile impedire tutto. Così i grandi classici potevano circolare a patto… di essere eseguiti da orchestre italiane e con titoli italiani: ecco perché Saint Louis Blues diventò Tristezze di San Luigi! I miei, che erano molto giovani e dunque curiosi, appassionati di musica e ghiotti di novità, in barba alla polizia riuscivano a procurarsi dischi o spartiti di musica americana; la decifravano e poi la suonavano in salotto».

E mentre nella vicina Asti si suonava in famiglia, a Torino le jam session non si arrestarono, anche se si fecero più defilate e intime. I club e le esibizioni ripresero vita e forza dal dopoguerra in avanti, sfruttando diverse location: il Teatro Chiarello (palco di Armstrong nel ’35), l’Hot Club (locale storico che ha visto la nascita di personaggi del calibro di Fred Buscaglione e Piero Angela, in veste di talentuoso pianista dallo pseudonimo di Peter Angela), il Clubino e lo Swing Club. Grazie al grande impegno di Silvio Vernoni, fautore di moltissime iniziative e figura centrale nell’ambiente jazz torinese, la città ha imparato a conoscere e apprezzare la musica nera americana, che nell’immediato dopoguerra ricopriva ancora un ruolo marginale. Dopotutto, Vernoni mise a confronto i torinesi con Benny Goodman, Joe Venuti, Dizzy Gillespie e Chet Baker, solo per citarne alcuni, artisti che aiutano di certo la formazione di una certa sensibilità musicale.

I decenni successivi al secondo dopoguerra rappresentarono quindi il periodo d’oro del jazz a Torino, e anche se i movimenti e le sonorità si sono modificati profondamente, la città ha negli anni continuato a celebrare quella intensa passione tramite l’organizzazione di numerosi concerti e iniziative come il recente Torino Jazz Festival, organizzato dal 2011 tra aprile e maggio con buona risposta da parte del pubblico. Purtroppo l’edizione 2017 è incerta, anche se si prevede una kermesse dedicata a letteratura e jazz.

Silvio e Lena Vernoni
Silvio e Lena Vernoni con Joe Newman e altri della Count Basie Orchestra.

Riporto infine una descrizione di jazz fornita da Massimo Mila (intellettuale dell’azionismo piemontese e musicologo) che già nel 1935 fu in grado di riconoscere l’importanza centrale dell’improvvisazione e della personalità del musicista: «il jazz non è una forma musicale, non è un ballo, non è un ritmo, non è un complesso strumentale (c’è musica di ottimo jazz per pianoforte solo), ma è piuttosto un modo di suonare: a tal punto che la personalità dell’interprete soverchia nove volte su dieci quella dell’autore».

Articolo di Edoardo Traverso

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