Il giorno che il rock progressive baciò la musica d’autore.

DeAndrè-Premiata-Firneria-Marconi-ArrangiamentiCi sono momenti d’epifania, in cui vorresti essere nato in un altro momento, solo per poter assistere ad un evento particolare. Credo che ognuno di noi abbia vissuto questa sensazione almeno una volta nella sua vita: per quanto mi riguarda, uno di questi momenti di chiarezza è legato alla prima volta che ho ascoltato il doppio live di De Andrè accompagnato dalla PFM, chiamato per l’appunto Arrangiamenti.

Per carità, non sono certo ciò che si può definire un gran musicista: amo suonare i miei strumenti e suonare con i miei amici. La mia capacità tecnica è quella di un dilettante, non certo di un professionista. Ma conosco la musica, e posso affermare, senza tema d’essere smentito, che Arrangiamenti si avvicina moltissimo alla perfezione.

Un paio di note storiche, giusto per amor di completezza: Arrangiamenti esce in due dischi, pubblicati a cavallo tra il 1979 e il 1980, contenenti le registrazioni dei live registrati durante la tournee di André con dei colossi del progressive italiano: la Premiata Forneria Marconi. L’operazione non mancò di far storcere il naso ai puristi del cantautorato italiano, che al tempo era visto come disgiunto dal virtuosismo del rock di quegli anni. Basti ricordare che gli anni che vanno dalla prima metà degli anni ’70 fino al ‘77 hanno rappresentato il culmine della diffusione della musica rock progressive italiana. Area, Goblin, Osanna, Formula 3, Premiata Forneria Marconi, erano solo alcuni dei nomi che popolavano la scena. E si trattava di musicisti di caratura incredibile, di qualità ben diversa da quella alla quale – ahimé – siamo assuefatti oggi.

Dice Franz Di Cioccio, a proposito della loro provvida unione:

«A mio avviso, tra tutti i cantautori, Fabrizio De André è quello che più di ogni altro è riuscito a infondere poeticità nelle sue canzoni. Noi lo conoscevamo da tempo – avevamo già lavorato con lui alcuni anni prima – e così, quando un giorno d’estate lo incontrammo a un concerto in Sardegna gli buttai lì l’idea di fare qualcosa insieme. La collaborazione tra un cantautore e un gruppo era comune in America e a noi sembrava che con Fabrizio si sarebbe potuto svolgere un buon lavoro, offrendo al pubblico italiano qualcosa di nuovo. De André aveva avuto un’esperienza simile solo con i New Trolls, che per certi versi era stata positiva e per altri no, perché erano rimasti due gruppi di lavoro abbastanza divisi. Non c’era stata una fusione vera e propria. Diciamo che loro avevano suonato le cose di De André e De André aveva avuto un gruppo che lo accompagnava, tutto qua. Noi invece avevamo in mente qualcosa di molto diverso, un vero e proprio progetto di collaborazione artistica, dove ognuna delle due componenti, il cantautore e il gruppo, avrebbe influenzato l’altra. Glielo spiegammo, ma lì per lì non la prese molto bene.
“Eh belin!” disse, “suonate troppo forte!”
“Ma no, ci adattiamo a te!”
“Arrivate con tutti vostri watt e mi uccidete!”
“Ascolta” disse Franco prendendo la chitarra, “io ‘Il pescatore‘ la vedo così. Un po’ più funky, un po’ più allegra…” e si mette a fare un giro di accordi.
Fabrizio ascolta e sorride. “E la batteria? Questo qui picchia forte, non so….”
Ci volle un po’, ma riuscimmo a convincerlo, forse anche perché riuscimmo a comunicargli il senso del gruppo. Fare una tournée però lo spaventava un po’. In generale Fabrizio è una persona un po’ schiva e l’idea di affrontare il pubblico tutte le sere, di viaggiare con noi e con tutto l’annesso, non gli garbava molto. Ma riuscimmo a trasmettergli la carica giusta. Gli garantimmo comprensione e collaborazione e alla fine, stringendoci la mano, suggellammo l’accordo.
Scegliemmo un trentina di pezzi e ci suddividemmo il lavoro. Era una strategia che serviva a non tradire lo stile dei pezzi. Per esempio le canzoni più francesiggianti sono state affidate a Patrick, perché essendo vissuto in Francia poteva arrangiarle in linea con il loro sound. Franco invece prese i pezzi dove poteva fare valere la sua dimestichezza con la musicalità della chitarra. A Flavio vennero affidate le cose che ci sembravano richiedere un’elaborazione più complessa, perché dal punto di vista degli arrangiamenti era il più preparato di tutti. Mettemmo su un bel gruppo di lavoro e dopo qualche mese il materiale fu pronto. Ne era uscita una cosa nuova e un po’ strana, dove la poeticità dei testi di Fabrizio e le sue belle e pulite linee melodiche si sposavano con una musicalità sognante, piena di immagini, invenzioni e colpi di scena. La cosa funzionò a meraviglia: i pezzi, completamente rivisti e rielaborati, assumevano un sapore nuovo e più pieno, mentre il dialogo tra testi e impasti sonori risultava continuo ed equilibrato. In questo contesto, la voce calda e affascinante di Fabrizio non veniva per nulla sacrificata, anzi. Tutto infatti era stato studiato nei minimi particolari affinché noi non lo coprissimo mai. Gli arrangiamenti erano stemperati: quando lui cantava, sembrava di vedere un acquerello, un dipinto molto bello dai colori tenui. C’erano però anche momenti in cui si partiva forte in modo da far esplodere la carica musicale della PFM. Ne fummo tutti molto soddisfatti. Anche il pubblico dimostrò di apprezzare quello strano connubio, tra due realtà che allora, in Italia, erano considerate assolutamente incompatibili. Invece la nostra idea funzionò, dimostrando che anche un cantautore può avere da guadagnare dalla collaborazione con un gruppo. E viceversa.»

DeAndrè-PFM-ArrangiamentiIl prodotto di quel meraviglioso gennaio del 1979, del sodalizio tra le poesie musicate di Faber e gli incredibili arrangiamenti di Di Cioccio, Mussida, Djivas e compari, lo possiamo ascoltare ancora. E ancora. E ancora. Perché Arrangiamenti è forse uno dei pochi live davvero perfetti che io abbia mai ascoltato. C’è tutto: folk, rock, progressive, musica popolare. Gli strumenti si rincorrono in una corsa infinita di armonizzazioni complesse:  la fisarmonica di Premoli, il violino di Fabbri e le chitarre di Fabbri sono sostenute dalle indemoniate linee di basso e delle percussioni di Di Cioccio. E, sopra a tutto questo, le parole di Faber.

Non esiste nota fuori posto, e l’anima vibra nel sentire le storie di DeAndrè. Le storie d’amore, di morte, di sfida alle miserie umane: le storie alle quali il Genovese ci ha abituato e che continuano a suonare perfette e senza tempo.

Arrangiamenti, a distanza di 37 anni dalla sua registrazione, rappresenta ancora una pagina di storia della musica italiana. E confrontarsi con vette così alte non può che generare un sentimento di nostalgia, di perdita per non aver avuto la possibilità di assistere a un concerto così incredibile.

Con uno spettacolo carico di energia ed emozioni allo Sherwood Festival di Padova, Il Muro del Canto si conferma una band di talento e capace di muovere le persone.

Il-Muro-del-PiantoQua lo dico, mi sbilancio e lo sostengo con forza: i testi de Il Muro del Canto andrebbero portati nelle scuole e studiati in letteratura italiana. Così, a fianco di Pasolini, ci sarebbero pure le parole del Muro.

Nascono a Roma, nel 2010. Tutti musicisti, amici. Me li immagino così, già vestiti di nero, a comporre il loro primo pezzo, Luce Mia, magari dopo una buona bevuta in compagnia. E, come dice Alessandro – percussionista e narratore – dal palco dello Sherwood festival, durante il concerto tenutosi domenica 3 luglio davanti a un pubblico compatto e rapito dalle note e dalle parole del gruppo, è stato proprio dopo aver composto questo primo pezzo che si è formato il Muro del Canto.

Definire musica la produzione de Il Muro del Canto è riduttivo. Sarebbe forse più adatto chiamare vita l’intenso intreccio di emozioni che i ragazzi creano con voce e strumenti. Pescano a piene mani dalla tradizione delle canzoni romane, narrano storie di amore e morte, cantano la dolorosa gioia di vivere del popolo. E, come se non bastasse, fondono il tutto in una matrice musicale complessa, ricca di energia e di pathos, media aritmetica delle passioni che fluiscono dai loro strumenti. Danno vita a un eccezionale amalgama di folk, rock, blues. E non è un caso: la loro è musica popolare, nel senso migliore del termine, e dalla musica del popolo traggono ispirazione.

Il-Muro-del-Pianto-concertoIl concerto tenuto allo Sherwood Festival di Padova, domenica 3 luglio, è stata la conferma della capacità de Il Muro del Canto di muovere le persone. Sotto un cielo livido, carico di nuvole viola, si è alzata la voce del Muro del Canto, impersonata dalla voce profonda del cantante, Daniele Coccia. Il tempo di iniziare e il pubblico cantava le canzoni e si lasciava trasportare dalle parole e dalla musica. Un’ora di concerto nella quale si è formato un contatto intimo con il pubblico – strettamente veneto, e quindi non dei più facili – fin dal primo brano, L’Ammazzasette, dalle sonorità che omaggiano il western di Morricone, attraverso un filo rosso che si snoda per tutti e tre gli album, ognuno con la propria storia da raccontare. Il giro di boa si ha a metà concerto, con la voce narrante di Alessandro Pieravanti che recita Domenica a pranzo da tu madre. Il pubblico, anche coloro che non conoscevano ancora Il Muro del Canto, è ormai conquistato. Da qua alla fine del concerto è un botta e risposta col pubblico. Alessandro Marinelli salta come un fauno abbracciato alla fisarmonica, Giancarlo Barbati gioca con la chitarra, sostenuto dall’eccezionale tappeto ritmico di Eric Caldironi alla chitarra ritmica e Ludovico Lamarra al basso. E, quando alla fine dal banco mixer fanno cenno di chiudere, il pubblico chiede ancora storie, ancora musica, ancora Muro del Canto.

Davide Saggioro, proprietario del Wise Mastering Studio di Verona, ci spiega il lavoro di post-produzione e mastering.

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Wise Mastering Studio.

Entrando nella sala lavoro del Wise Mastering Studio ci si accorge subito di una cosa, affatto scontata per chi non è mai entrato in una sala insonorizzata: c’è silenzio. O, meglio ancora, c’è assenza di rumore. Ci si rende conto di quanto la nostra percezione – le nostre orecchie – siano sopraffatte da disturbi continui, sollecitazioni di fondo, ronzii. In una sala mastering, quando non si sta lavorando, regna la quiete.

È lo stesso Davide Saggioro, proprietario dello studio e ingegnere del suono, a spiegarmi il perché: «Il mastering di un brano musicale è una questione di precisione nell’ascolto. È un’azione intrapresa dall’alto, neutra, che serve a dare una sfumatura o una connotazione precisa a un brano, a rendere perfetti i livelli d’insieme. Per questo la sala è insonorizzata dai rumori esterni indesiderati, utilizzando anche delle strutture apposta in grado di rompere le frequenze indesiderate».

È questo il primo approccio al Wise Mastering Studio, realtà veronese in crescita. Davide, classe ‘81, sta realizzando il suo progetto, un passo alla volta.

Com’è nata questa passione per il mondo dell’audio e l’ingegneria del suono?
È un percorso strano. Mi sono avvicinato a questo ambiente dal lato tecnologico. Ero incuriosito dalla fisica del suono. Nel voler capire come mai certi album suonassero “bene” sono andato ad approfondire l’aspetto tecnico, la natura fisica delle onde e delle vibrazioni. La partecipazione a diversi corsi e workshop di sound engineering è stato il passo seguente. La consapevolezza ha aperto le porte alla conoscenza: ogni libro, ogni manuale che studiavo apriva la strada a nuove domande e a nuovi aspetti tecnici. Pian piano sono arrivati i primi lavori, l’acquisto del materiale, la creazione di una realtà mia. È stato un percorso molto lungo. È ancora un percorso, non si finisce mai d’imparare l’aggiornamento è fondamentale.

Il tuo è uno studio professionale. Quanto ti è costata l’attrezzatura, nel corso degli anni?
Inquantificabile. L’attrezzatura è in continua evoluzione, è un costante miglioramento tecnico della strumentazione. Si parla di diverse decine di migliaia di euro. Naturalmente l’acquisto di nuovo materiale è finalizzato a lavorare sempre meglio e in maniera più efficiente, quindi si tratta di investimenti veri e propri.

Spesso c’è confusione su come nasce un disco e su cosa sia effettivamente l’attività di uno studio di mastering. Specialmente per chi è al di fuori del mondo musicale, per l’ascoltatore medio, un album è sostanzialmente il prodotto del lavoro dell’artista o di una band.
Un disco è un lavoro corale. Certo, senza l’artista non esisterebbe la musica. Ma senza i tecnici del suono non ci sarebbero i dischi. L’iter della produzione di un album è piuttosto articolato. Nasce dall’idea dei musicisti che compongono dei brani e li suonano. Ma ancora prima della registrazione vera e propria – soprattutto nelle grandi produzioni – viene fatta una prima operazione di pre-produzione, un controllo delle idee, dei livelli e dei suoni che si vogliono ricercare. In seguito si passa alla fase di registrazione vera e propria, che poi è l’unica percepita dal grande pubblico. Ma anche questa è solo una fase all’interno del processo produttivo che è ben lontano dalla sua conclusione. Successivamente si passa alla fase di editing, dove i tecnici, assieme al produttore, lavorano sui livelli e sugli ambienti, sull’equalizzazione assieme al bilanciamento generale degli strumenti.

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Davide Saggioro del Wise Mastering Studio di Verona.

E arriviamo così alla fase di Mastering.
Esatto. Durante questa fase si svolgono due attività principali: si valutano i mixaggi delle singole tracce nelle loro potenzialità, e si cerca di dare una uniformità totale al progetto, un lavoro di fine tuning che poi è ciò che manca rispetto al lavoro finale.

Come mai c’è bisogno di quest’ultima produzione?
Vedi, i mixaggi delle canzoni non sono sempre uniformi anche se fuoriescono dallo stesso studio di registrazione e sono effettuati dallo stesso tecnico. Questo perché il progetto è dilatato su più giorni, settimane e fisiologicamente le variabili di registrazione e mixaggio cambiano. Si tratta pur sempre di un processo creativo, artistico e tecnico, soggetto a variabili di concentrazione, tempo e umore. A volte diversi strumenti sono registrati con apparecchiature differenti, in differenti sale di registrazione, da tecnici diversi e con livelli di mixaggio non omogenei. Il mastering si fonda su un ascolto neutrale, motivo per il quale le stanze sono tarate acusticamente in modo da evitare qualsiasi tipo di distorsione del suono. Ci sono dei diffusori acustici dall’elevata qualità di riproduzione sonora. Infine ci sono gli strumenti, analogici e non, che servono a modificare le varie tracce senza alcun tipo di alterazione distruttiva, conferendo la naturalezza necessaria al brano musicale. Attraverso il Mastering si bilanciano tutti i suoni in maniera definitiva, cercando di enfatizzare al massimo l’anima del disco e le potenzialità del lavoro. Inoltre c’è un altro aspetto importante: al giorno d’oggi la musica viene ascoltata su una moltitudine di formati e media diversi. Ognuno di questi esige il proprio tributo in termini sonori. Un vinile suona differentemente rispetto a un CD. Non parliamo poi dei diversi lettori audio per l’ascolto su Web: Spotify, Youtube, Itunes, SoundCloud, ReverbNation e mille altri sistemi che hanno una Delivery differente. Per i progetti più complessi, l’attività di Mastering va a tarare il risultato finale anche per tutti i diversi formati. Ecco che dello stesso album esisterà un Master per ognuno di questi medium.
Al giorno d’oggi è richiesto un’ulteriore sforzo all’ingegnere di mastering: far suonare “molto forte” il brano musicale, al pari del livello sonoro delle migliori produzioni commerciali. Se hai mai sentito parlare di Loudness War, sai di cosa sto parlando.
Non è tanto complicato far suonare un brano come un altro a livello sonoro, quanto far sì che il brano rimanga naturale, che mantenga le sue dinamiche e il suo timbro caratteristico, quindi senza pesanti alterazioni o distorsioni dovute alla pesante lavorazione di limiting o compressione per portarlo al livello desiderato. Questa è la vera difficoltà.

Qual è l’impegno richiesto per diventare un ingegnere del suono?
Guarda, uno dei gap principali è spesso determinato dalla quantità di denaro che serve ad allestire una sala di lavoro e dalla capacità predisposizione di ascoltare in maniera diversa analitica e con una visione d’insieme la musica. Non esiste al momento – in Italia – una scuola di Mastering. Si tratta di seguire workshop, aggiornarsi, e studiare tanto, ma proprio tanto. E poi ascoltare dischi. Serve molta curiosità e avere la fortuna di poter lavorare in qualche studio, fintantoché non si riesce ad allestirne uno proprio. Serve una sensibilità musicale e soprattutto sonora. L’ascolto è un aspetto fondamentale dello studio. Esiste di fatto anche una componente creativa. Il mastering è l’arte del compromesso, e questo viene filtrato attraverso la sensibilità dell’ingegnere del suono. Un album masterizzato da me suonerà differentemente dallo stesso disco masterizzato in un altro studio.

Il Wise Mastering Studio è una realtà ben conosciuta a Verona, e hai curato i master di molte realtà emergenti del veronese. Con chi ti piacerebbe lavorare in futuro?
La percezione dell’importanza del Mastering in Italia è ancora bassa. Si sta muovendo qualcosa, ma le realtà che si occupano di postproduzione non sono moltissime. C’è molto spazio per crescere e ho notato un notevole incremento del lavoro negli ultimi tempi, ma molte delle commesse arrivano dall’estero. Naturalmente lavoro soprattutto con la post-produzione e l’audio mastering per il video e il cinema. In ambito musicale mi piacerebbe lavorare soprattutto con tre band: Almamegretta, Negrita e Elio e le Storie Tese. Chissà che il futuro non riservi qualche bella sorpresa!

Bruno “Mantra” Giraldo e il progetto C.A.L.M.A., un Consorzio di musicisti per portare in giro le band che propongono pezzi propri.

Bruno-Mantra-GiraldoLui, Bruno “Mantra” Giraldo, ha reso la musica un punto focale della sua vita. Come addetto ai lavori, come musicista, come “entrepreneur”, nonostante la giovane età, si è legato alla realtà underground del Veneto.

Una meravigliosa ossessione che l’ha portato a scontrarsi con l’inerzia che la scena vive a causa delle scarse opportunità. Cresce e si sviluppa così l’idea – la convinzioneche la rinascita della scena musicale debba passare non più per le innumerevoli cover-band, bensì attraverso tutti coloro che propongono musica propria. La disparità di opportunità live, soprattutto per chi non si vuole limitare ad essere una cover-band, è regolata dalla necessità dei locali di avere un folto pubblico che generi degli introiti, a discapito della creatività e della spontaneità musicale.

Ciao Bruno. Hai fatto della passione per la musica una missione: hai creato l’associazione culturale Ottoeventi, partendo dalla zona di Padova e via via allargandoti. L’ultimo nato è il Progetto C.A.L.M.A., un vero e proprio consorzio di musicisti. Ci vuoi raccontare la storia dietro all’associazione e al progetto?
Ciao! Innanzi tutto grazie per questo spazio. In realtà l’Associazione culturale Otto è l’ultima nata, anche se risale a quasi tre anni fa. Fin da giovanissimo ho sempre partecipato ad attività associative e ho fatto parte e fondato varie associazioni che, purtroppo, per pura inesperienza o per eventi contingenti, sono sempre finite in un cul de sac. Otto invece, forte delle esperienze passate, sta concretizzando sé stessa e le proprie attività. L’associazione è stata fondata da me, Davide Melilli e Alberto Coin. Da pochi mesi è entrata nel direttivo anche Ingrid Martini. Il progetto C.A.L.M.A. (Consorzio Autonomo Liberi Musicisti e Artisti) nasce in buona sostanza come risposta alla necessità di dare spazio, volto e voce ad una scena che per vari motivi è ancora troppo poco visibile e tangibile.

Un consorzio di musicisti per portare le band che propongono pezzi propri in giro. Ti sei ispirato a qualche realtà già esistente?
A onor del vero il Consorzio si compone sì principalmente di musicisti e band, ma anche di professionisti come web designer, fotografi, grafici, tecnici audio, gestori di locali, illustratori, merchandiser, studi di registrazione etc. Mi sono rifatto al Consorzio Suonatori Indipendenti, ma più in generale alla scena degli anni ’90. L’ispirazione vera è arrivata mentre ero fuori da casa mia a guardare il vento che muoveva le foglie degli alberi: CALMA.

L’interesse nei confronti del progetto è stato piuttosto vivace: alla prima riunione (tenutasi a Dolo, al Kilometro01) c’erano molte band locali.
Si è così. Al meeting delle band indipendenti, tenutosi al Kilometro01 di Arino di Dolo, c’erano più di 70 persone in rappresentanza di non so neanche quante band. Il bello è che, da quel giorno, è costantemente aumentato tutto. Ora il consorzio vive una sacrosanta fase di euforia iniziale, si gode il rumore che fa, e ne sta facendo tanto. Il 4 luglio avremo la seconda riunione al Blue Rain di Vigorovea e da quel giorno inizieremo gradualmente a concretizzare idee, progetti e a valutare la fattibilità delle proposte.

Come al solito c’è molto interesse – e molta “fame” di date – da parte dei musicisti, indipendentemente dalla città. Eppure sono soprattutto le cover band a trovare spazio nei locali. Qual è il motivo di questa disparità nell’offerta?
La fame di date io la leggo come fame di espressione. Viviamo in un sistema dove moltissimo di quello che passa come informazione è indotto. La musica da sempre è stata sinonimo di libertà, o addirittura di liberazione o trascendenza in certe culture. Oggi più che mai la fame è quella di libertà, e la musica può esserne uno dei veicoli più potenti. Questo, sotto sotto, credo sia consciamente o inconsciamente il motivo che spinge qualcuno a suonare, cantare, comporre. Viene da sé che chi non compone e suona qualcosa di altri forse è più vicino a quel filone di cose indotte che a quel filone di cose libere e liberanti. Non entro in merito oltre riguardo al fenomeno “tribute band”: non lo considero più un problema, e ancora meno da quando è nato CALMA.

I gestori dei locali, nel contesto, che meriti e che colpe hanno?
Dipende. Ci sono i furbacchioni e gli onesti. Ci sono quelli coerenti con le loro idee e quelli che invece deviano. Fatto sta che di fondo loro devono riuscire a tenere aperto per campare. E qui non ci piove. Un gestore è un imprenditore, e come tale sa che deve investire per avere dei riscontri. C’è chi investe in qualità e chi in quantità e in nessun caso si parla di colpa: solo di scelta. Dopo un po’ però, i musicisti passano parola nel bene e nel male. Il resto è un’ovvia conseguenza.

Bruno-Mantra-Giraldo-Consorzio-CALMA
Una riunione del Consorzio C.A.L.M.A..

I locali che aderiranno al progetto CALMA, oltre a mettere a disposizione le strutture, cercano sicuramente un ritorno in termini monetari e d’immagine. Come pensate di diffondere questa nuova realtà? Se il pubblico è composto dagli stessi componenti dei gruppi all’interno del Consorzio, non temi che l’affluenza possa essere limitata? O confidi nel fatto che ogni gruppo poi riesca a trainare anche il proprio pubblico?
Con i locali che aderiranno al Consorzio stiamo studiando delle particolari promozioni dedicate alle serate CALMA. Promozioni che mirano ad ingolosire anche il pubblico esterno al Consorzio, ma che sono attuabili dal locale potendo contare sulla presenza garantita dei musicisti consorziati. In termini più gretti: il rischio “locale vuoto” viene scongiurato. Il concetto è quello di auto sostentamento: se il locale è pieno ne guadagna il gestore, ne guadagna l’immagine del posto, ne guadagnano le band, ne guadagna chi ci ha lavorato. È una spirale positiva. O almeno ci impegneremo perché lo sia. Non speriamo più, è meglio tirarsi su le maniche e iniziare a fare: ecco come diffondere una passione che diventa realtà.

Quando inizieranno le attività del progetto CALMA e quanti i locali che finora hanno aderito?
Ci sarà una data test questo venerdì (24 giugno, ndr) al Blue Rain di Vigorovea (Pd) con gli Hi Fi Stacy live. Ma come accennavo prima il 4 luglio sarà il nostro Independence Day, e da lì cominceremo effettivamente a lavorare per la stagione 2016/17. Per ora i locali consorziati sono il Kilometro01 e il Blue Rain, oltre che qualche spot al Rock’n’Roll di Rho (Mi). Ha manifestato la sua disponibilità anche Spazio Zero di Oderzo (Tv) con cui contiamo di avviare una collaborazione al più presto… altri sono in arrivo. A breve sarà online il sito www.calmaweb.org dove sarà tutto aggiornato costantemente.

A detta di molti, soprattutto musicisti, qualcosa nell’ambiente sta cambiando. Nascono nuove realtà, molti gruppi iniziano a capire che l’unione fa la forza e cercano di aiutarsi, più che di farsi la guerra l’un l’altro. Come vedi la scena underground del nord Italia?
Sono assolutamente d’accordo: qualche cosa si muove. La scena nel nord Italia è varia in superficie ma praticamente identica nelle profondità. Da Pordenone a Milano, da Venezia ad Alessandria, passando per Cremona e Bologna: ovunque c’è fermento sempre maggiore, forte, tangibile, sanguigno. Magari da zona in zona emerge più un genere rispetto ad un altro, ma è come il magma che preme sotto la crosta terrestre. Dunque la forza c’è, la velocità pure, manca una direzione che tutti prendano e verso la quale tutti si dirigano remando con le stesse forze con cui han remato finora singolarmente. Ecco da cosa e perché è nato il Consorzio. Vi ringrazio a nome di OttoEventi e di C.A.L.M.A. per lo spazio che ci avete concesso: Tutti sono liberi di salire a bordo in questa avventura e sono i benvenuti. L’importante è fare bene e con calma…

Riccardo Muti e l’orchestra Cherubini: il tutto è infinitamente superiore alla somma delle parti.

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Riccardo Muti alla direzione dell’Orchestra Cherubini (Foto © Silvia Lelli).

4 giugno 2016, Pala De André. Riccardo Muti, titano della musica classica, torna da Chicago per una delle sole 3 date in Italia, in occasione del Ravenna Festival.

In questa toccata e fuga, tanto per parafrasare la musica classica, Muti dirige un’orchestra particolare, frutto di un personale progetto a sostegno dei giovani musicisti italiani. L’orchestra Cherubini, è qualcosa di più dei giovani musicisti che la compongono: è un progetto, una visione e, per molti dei ragazzi che ne fanno parte, un sogno che si realizza.

Accedervi non è cosa da tutti. I giovani strumentisti che tentano l’impresa vengono selezionati attraverso centinaia di audizioni da una commissione presieduta da Muti in persona, affiancato dalle prime parti delle più prestigiose orchestre europee.

Ed è qualcosa di più di un semplice ingaggio: è un’esperienza di vita, altamente meritocratica e limitata a un solo triennio nel quale si vive e si respira musica classica, sotto la direzione dello stesso Muti. Triennio al termine del quale, forti di un’esperienza di così alto livello, si apre la possibilità di trovare il proprio posto nel mondo della musica classica.

Viste le premesse, ci si aspetterebbe un concerto elitario, un’atmosfera seria e compita. Nulla di più sbagliato.

Il Pala De André, sede del concerto, è gremito da un pubblico eterogeneo, interessato e incredibilmente partecipe. Perché di fronte alla bravura dei giovani musicisti che compongono l’orchestra, non si può che rimanere rapiti.

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Riccardo Muti.

Muti dirige con la solita bravura ed eleganza, capace di interpretare e incanalare l’energia trasmessa da tre capolavori della letteratura musicale: il concerto si apre con l’Ouverture “Coriolano di Beethoven”, prosegue con la Ottava in Si minore D759 “Incompiuta” e termina con la poderosa, incredibile Quinta Sinfonia in Do minore op.67 di Beethoven.

Ma ciò che davvero lascia senza fiato è la coralità, l’incredibile alchimia dei musicisti che, sotto la guida di Muti, interpretano partiture immortali con bravura senza pari, intessendo il dialogo sinfonico con energia e passione fresca e perfettamente controllata.

Muti li osserva e li accompagna. Li indica personalmente, uno ad uno, ne modula le voci con gesti inequivocabili, potenti e carichi di significato, in un dialogo silenzioso. E alla chiusura di un incredibile e vivissimo concerto esce e rientra solo per chiamare attorno a sé l’orchestra intera, come a voler sottolineare l’aspetto fondamentale della musica sinfonica: che il tutto è infinitamente superiore alla somma delle parti.

L’esperienza di questo concerto tocca nel profondo e lascia il segno, e il Ravenna Festival riesce pienamente nel suo intento di diffondere la cultura della musica classica in maniera fresca, leggera, lontana dagli stereotipi di genere. I ragazzi della Cherubini abbattono i pregiudizi nei confronti della musica sinfonica a colpi d’archetto, con l’entusiasmo e la passione propria di chi vive un sogno: far parte di una grande orchestra, diretta da uno dei sommi maestri della musica classica contemporanea.

Fabrizio Voghera è in attività dal 1987 ed è riuscito a farsi strada nel panorama italiano, per arrivare ai grandi musical di Cocciante.

Intervista a Fabrizio Voghera
Fabrizio Voghera.

Lui , Fabrizio Voghera, non è uno di quei personaggi che attraversano la musica Italiana non come piccole comete temporanee, che finiscono per spegnersi sulla terra. No, Fabrizio può essere accomunato a un corpo celeste dalla luminosità costante, sicura, che attraversa il cielo. In attività dal 1987, è riuscito a farsi strada nel panorama italiano, per arrivare ai grandi musical di Cocciante, e, da ciò che ci racconta in questa intervista, non ha nessuna intenzione di fermarsi.

Ciao Fabrizio, è un piacere intervistarti. Sei in attività da tanti anni, hai alle spalle centinaia di concerti: è questa la vita che immaginavi e desideravi?
Grazie a te, il piacere è tutto mio. Assolutamente si, questa è la vita che sognavo fin da bambino. Ti dirò di più: pregavo, prima di addormentarmi, che la mia passione per il canto e la musica si trasformasse in realtà diventasse la mia vita.

Quanto la tua famiglia ha influenzato i tuoi sogni e la tua vita professionale?
Sono stato fortunato perché sono cresciuto in una famiglia dove la musica e l’arte non sono mai mancate. Ho tre fratelli, uno è diventato vicedirettore del conservatorio di Torino, insegna pianoforte ed è un ottimo concertista, un altro è scenografo ed ha la cattedra presso l’accademia di belle arti di Torino. Infine il più grande è chirurgo ma è anche un ottimo jazzista e suona anche lui il pianoforte. E non dimentichiamoci della mia mamma che è ancora oggi cantante lirica e come se non bastasse ho un papà novantaquattrenne ex  ginecologo cineamatore, disegnatore e suonatore di vari strumenti… come vedi non mi è mancata l’ispirazione!

Questa presenza costante dell’arte e della musica nella tua famiglia ti ha aiutato?
A  dirla tutta io sono stato penalizzato nelle scelte adolescenziali, dovendo rinunciare a studiare musica in quanto in casa già ce n’era troppa! Ma con la forza di volontà e molto coraggio posso dire oggi di essermi tolto qualche soddisfazione dopo aver penato e lottato per imporre la mia scelta.

La tua è una storia di perseveranza, passione e tanta, tanta gavetta. Come ricordi gli anni prima dell’incontro con Limiti?
È stato tutta una conseguenza naturale di ciò che dicevo prima: subito dopo l’esame di maturità sono partito per fare l’animatore turistico nei villaggi dove ho iniziato il mio personalissimo percorso formativo ,fatto di serate di musica dal vivo a 360 gradi, per poi arrivare ad esibirmi in numerosissimi locali della nostra penisola. Sono state lunghe notti fatte di musica, autostrade, montaggi e smontaggi… e tanti cavi!!! Per parecchi anni una sana e florida GAVETTA!! Successivamente l’occasione televisiva con Paolo Limiti, che ringrazierò sempre. È stato lui a presentarmi al grande pubblico dandomi l’opportunità per ben quattro anni di cantare come solista nella sua trasmissione “Ci vediamo in TV” aprendomi possibilità notevoli per poi potermi esibire nelle più importanti piazze d’Italia.

Intervista-Fabrizio-Voghera
Fabrizio Voghera è Quasimodo in Notre Dame de Paris.

Uno dei punti più alti della tua carriera, finora, è stata l’interpretazione di Quasimodo in Notre Dame de Paris di Cocciante. Lui è un gigante della muscia italiana, con delle capacità canore e compositive di altissimo livello. Com’è stato il vostro primo incontro, cosa ti aspettavi?
Sicuramente un mito e per me un idolo, fin da bambino ascoltavo le sue canzoni e ne sono sempre stato rapito musicalmente. Il nostro incontro è avvenuto in occasione della mia prima audizione per Notre dame de Paris. Il punto è che non sapevo che lui fosse in teatro ad ascoltare i partecipanti. Io l’ho scoperto poco prima di esibirmi e ciò a causato una reazione adrenalina molto forte che però si è rivelata assolutamente positiva dal momento che poi mi ha scelto come protagonista della sua opera nel ruoli di Quasimodo e Frollo!

L’esperienza di Notre Dame di Paris è stata a dir poco eccezionale. Ma Notre Dame de Paris è un’opera corale, magnifico connubio tra scenografia, testo, musiche e regia: cosa ricordi con maggiore emozione della tournée?
Una tournée che dura ancora oggi e che io ho avuto la fortuna ed anche la forza di affrontare per dieci anni, di cui l’ultimo in giro per il mondo con una versione inglese dell’opera che mi ha portato in teatri meravigliosi come Mosca, Singapore, Istanbul. L’emozione più grande è difficile da dire, perché ogni volta che sei su quel palco vivi una dimensione musicale e teatrale ai confini del concerto rock e dell’opera popolare e condividi la tua anima con tutto il cast. In quelle due ore e mezza ci si concede totalmente al pubblico e si finisce stravolti e appagati dal vortice di energia che t’investe. Non smetteresti mai di farlo. Comunque se proprio dovessi trovare un’emozione più grande di un altra potrei dirti che l’abbraccio che il pubblico dell’Arena di Verona ti riserva è indimenticabile!

Qual è stata l’emozione provata nella prima di Notre Dame de Paris, nonostante tu fossi già uno showman navigato?
Paura, ansia e soprattutto la terribile sensazione di poter dimenticare i testi delle canzoni, ma tutto si supera con l’amore per questo dannatissimo mestiere del quale non potrei fare a meno.

Pop, Rock, Musical, Jazz… hai toccato moltissimi generi. Ma a casa, Fabrizio cosa ascolta?
(Ride) A casa Fabrizio, mi dispiace deluderti, ascolta poca musica e cerca di comporla! Ma se devo accendere lo stereo mi piace ascoltare sempre un po’ di tutto, prediligendo i grandi gruppi rock dagli U2 ai Queen senza dimenticare grandi musicisti come Stevie Wonder ed anche la buona musica italiana dei nostri cantautori. In auto ho spesso l’orecchio sulla radio, devo dire soprattutto Capital. Cosa vuoi sono diventato nostalgico!

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Fabrizio Voghera nel Fantasma dell’Opera.

Chi ti ha influenzato di più in assoluto come musicista? La tua voce ha un registro molto esteso, eppure io sono rimasto incantato dalle tue interpretazioni di Cocciante: è solo un caso?
Direi di no, che non è un caso, come ho detto già prima sono cresciuto a pane e Cocciante, ma anche il rock elegante potente e raffinato degli U2, che con la voce del suo magnifico leader Bono Vox ha sempre fatto volare in alto i miei sogni di ragazzino.

Progetti per il futuro?
Ho un’opera popolare moderna pronta da mettere in scena, basata su un capolavoro di William Shakespeare. Ho scritto le musiche e i testi, adesso sto cercando disperatamente di metterla in scena.
È un progetto ambizioso, me ne rendo conto, ma ho sempre sognato fin da bambino e non smetterò certo adesso!

Musica361 incontra Gianni Sabbioni detto Il Sabbio, il bassista veronese in bilico tra Jazz e Barocco.

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Il Sabbio, all’anagrafe Gianni Sabbioni.

Lui, Gianni Sabbioni, chiamato a Verona “Il Sabbio”, se la ride mentre tiene in braccio uno dei miei gatti.

Se la ride perché, se metti due bassisti in una stanza, la serietà di solito si butta giù dalla finestra. Ma se la ride anche perché Il Sabbio è uno dei musicisti più umili che conosca, nonostante un curriculum musicale lungo quanto una tovaglia.

Classe ’67, inizia tutto con l’amore per l’hard rock (Sabbath, Ozzy, Deep Purple, Iron Maiden). Qual è stato il tuo percorso?
Da ragazzino strimpellavo la chitarra. Però su Tv Sorrisi e Canzoni leggevo sempre le formazioni dei gruppi, e c’era questo strumento, il basso. Poi ne ho preso in mano uno ed è cambiato tutto.

Nasce così la passione per le basse frequenze, gli studi con Daccò – colonna dell’armonia e grande musicista jazz italiano – a Milano nell’88. E poi?
E poi, dopo aver tentato l’università, giusto per pro-forma, mi sono iscritto al conservatorio e ho scoperto il contrabbasso e la musica barocca. Con Alberto Rasi e Stefano Veggetti. Ho iniziato a suonare con orchestre e ensemble di mezzo mondo. Ho girato il mondo in quegli anni, dal ’97 fino al 2012. La musica barocca pagava molto bene e ho avuto la soddisfazione di suonare sotto la direzione di Fabio Biondi nell’orchestra Europa Galante. Ma anche Tom Koopman, Gabriele Cassone, Roberta Invernizzi. Sono stati anni intensi.

Ma anche Jazz, Blues e Rock. Non a caso ti definisci “ex-contrabbassista barocco ora votatosi definitivamente al rock. (Quando glielo ricordo scoppia a ridere.)
Quello è un amore che non muore mai. A dire il vero non ho mai smesso di suonare la musica del diavolo. Dall’86 all’88 ho suonato con Rudy Rotta, facendo da spalla a gente come B.B.King, Tracy Chapman e John Lee Hooker. E poi i festival Jazz, dove ho incontrato un sacco di grandi musicisti, troppi per menzionarli tutti. Il Jazz ha occupato tutti gli anni ’90 e ancora rimane un grande amore.

Io sono fissato, quindi la domanda la faccio anche a te. Ma di musica si riesce a vivere? (Per un attimo diventa serio – cosa rara per Sabbioni)
Si, io ci vivo. Faccio l’insegnante da tanti anni (non a caso i bassisti di Verona hanno Il Sabbio come riferimento – ndr), ma adesso è comunque dura. Gli allievi una volta erano tanti e c’era tanta passione. Ora ci sono molte più realtà e contestualmente molti meno studenti, visto che internet è la nuova, grande scuola. Solo che tante volte è una scuola molto superficiale – diventa tutto performativo, senza alcuna comprensione profonda dell’armonia e della ritmica. Ci sono comunque i concerti di musica barocca, soprattutto quelli di organizzazioni estere. Il mondo della classica è vivo, anche se qua in Italia siamo tornati indietro per quanto riguarda il trattamento degli artisti.

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Gianni Sabbioni al Club Il Giardino.

Verona ha avuto una scena musicale di tutto rispetto. Come vedi adesso la situazione?
Durante gli anni ’90 c’erano un sacco di locali. Si suonava jazz, c’era il Posto, l’Invidia, il Madrugada. Verona era una bella scena, c’era fermento. Adesso la situazione è molto diversa: tantissimi gruppi fanno cover, non tanto per incontrare il favore del pubblico, quanto quello dei locali. Purtroppo il mestiere del musicista è considerato quasi accessorio, un hobby. Molti gestori utilizzano la leva della musica da vivo come semplice mezzo per riempire il locale, non per offrire un servizio culturale. Ovviamente ci devono guadagnare anche loro, ma subordinare tutto al rastrellamento del pubblico ha i suoi limiti.

Però a Verona c’è la storia magica di Giamprimo, del Giardino (famoso club veronese, divenuto tempio della musica progressive – ndr.).
E infatti il suo è tutto amore. Il locale è piccolo, in periferia, ma dal Giardino sono passati nomi come Tony Levin, gli Osanna, i Creedence e tanti altri. Il settore non è certo commerciale, ma lui con la passione ha creato un circolo virtuoso. È gentilissimo e tratta i musicisti come amici ospiti, non come vacche da mungere. Ora come ora la musica per i locali non è un investimento che rende subito. Ma col tempo, se ti specializzi, diventi un punto di riferimento. E Il pubblico arriva indipendentemente dal gruppo, perché si fida del nome del locale. Certo, una volta le condizioni erano diverse, la crisi ha picchiato duro. Adesso investire nella musica dal vivo è più impegnativo. Inoltre, e qua mi attirerò delle antipatie, c’è un problema di professionalità: la presenza di molti gruppi giovani e inesperti che chiedono cachet molto bassi tende ad abbassare il livello remunerativo di tutti. I gestori così fanno cassa e chiedono, talvolta pretendono ,che sia tu a portarti il pubblico, altrimenti non pagano nemmeno. Praticamente si è invertito il gioco delle parti. Se vedi, nella musica classica – visto l’impegno necessario per poter suonare in certi contesti – questo problema esiste in misura molto minore. Non ci si improvvisa musicista classico, pertanto il mercato è più sano.

A questo punto lancio la domanda vigliacca.

Sabbio, la situazione a Verona pian piano sta cambiando. E dei vari contest televisivi, format come X-Factor e simili, che ne pensi?
Il Sabbio mi guarda, e dice qualcosa di irripetibile, poi scoppia a ridere. Chiudo il registratore e mi riprendo il gatto, che nel frattempo gli si era addormentato in braccio.

Methodica: determinazione, passione e tanto, tanto impegno lastricano la strada verso il successo della band veronese.

Methodica

Capita a volte che le belle storie possano accadere anche in un panorama non proprio pieno di vitalità come quello italiano, in particolar modo quando si tratta di musica Progressive Metal.

Capita anche che i protagonisti di queste belle storie non siano i soliti raccomandati, magari piegati alle regole di uno show-biz che a volte poco ha a che fare con la musica, ma che siano 5 ragazzi che hanno ereditato la passione per la musica da piccoli, in famiglia o per un semplice caso fortuito.

Questa storia si chiama Methodica, e comincia nel 2009 con l’album Searching for Reflections.

Così, subito con un album?” è la domanda che faccio ai ragazzi dei Methodica, seduti davanti a una birra in un locale vicino alla loro sala prove, a Verona. “No” risponde Massimo Piubelli, voce del gruppo, “prima c’è tanta, tanta gavetta. Senza l’esperienza sudata sul palco non si arriva da nessuna parte“.

Questo la dice lunga sulla loro filosofia, e alla domanda “Riuscite a vivere della vostra musica?” scoppiano a ridere. “Al massimo andiamo in pari” risponde il tastierista Marco Baschera. “Diciamo che siamo musicisti con un secondo lavoro di giorno“.

Il loro percorso ha dell’incredibile: da gruppo locale partecipano al concorso Sonorità Emergenti. Lo vincono e qualche mese dopo si trovano proiettati sul palco del Pistoia Blues – dove torneranno anche nel 2015 – ad aprire il concerto degli Skunk Anansie. Da quel momento è una spirale di impegno e grandi occasioni di crescita. Si ritrovano a suonare con mostri sacri come gli Uriah Heep, i Dream Theater e i Queensryche, solo per citarne alcuni.

Ma in questo percorso la fortuna c’entra relativamente. Preferiscono parlare di impegno, di ragione di vita.

Mio papà suonava la batteria” mi racconta Marco Ciscato, chitarrista, “un giorno vidi un suo amico suonare la chitarra elettrica a un concerto. Capii in quel momento che nella vita volevo fare quello“.

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The Silence of Wisdom è il secondo album dei Methodica.

Le storie degli altri componenti del gruppo non si discostano dalla sua: ci hanno creduto, fino in fondo, e ci stanno riuscendo. Nel 2015 esce il loro secondo album, The Silence of Wisdom. Un lavoro complesso, raffinato e ricco di personalità – fattore non indifferente in un genere che sempre di più si fonda su cliché – insomma, un lavoro originale, frutto delle tante influenze che si intrecciano nei brani.

Ognuno di noi ha i suoi idoli” dice Paolo Iemmi, bassista “e tutti portiamo la nostra voce nella costruzione delle canzoni. E poi perfezioniamo, in maniera maniacale, fino a quando il risultato non ci soddisfa“.

E il risultato è così soddisfacente che – me lo rivelano in anteprima, qualche ora prima dell’annuncio ufficiale – i Methodica accompagneranno i Queensryche durante il loro tour europeo. Dodici giorni a spasso per il vecchio continente, a fianco di un gruppo che ha contribuito alla storia del Prog-metal.

La domanda non riesco a tenermela tra i denti. “E con i vostri lavori, come farete?” La risposta arriva corale. “Il lavoro si fotte. La nostra è una comunione d’intenti, una storia della Disney in salsa prog“. Dopo questa immagine, non ho più nulla da aggiungere. Finisco la birra chiacchierando del più e del meno con dei ragazzi che hanno davvero capito il significato e il coraggio di vivere un sogno, senza dimenticare per un solo istante di tenere i piedi per terra.

Romero Power Trio, la recensione del loro album “I“, un piccolo gioiellino dove nulla è stato lasciato al caso.

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I Romero Power Trio in concerto.

Romero Power Trio. Si presentano così: tre ragazzi, tanta attitudine, groove che scorre caldo nelle vene e tanto, tanto amore, per quello che suonano. Il loro EP, intitolato “I” (evidentissimo omaggio ai Led Zeppelin) è un piccolo gioiellino. Una produzione estremamente curata, nei suoni e nelle soluzioni, dove nulla è lasciato al caso. Elementi rock’n’roll, blues, punk, hard rock vengono fagocitati, masticati e risputati in un’amalgama unica, potente e maledettamente accattivante.

Romero Power Trio, la musica che penetra nel cuore e lascia il segno 2L’Ep si compone di 4 tracce, per un totale 16 minuti circa. Si apre con “Mother Moon“: un riff potente, carico di groove accompagnato dalla voce del cantante, in equilibrio su tonalità e melodie che strizzano l’occhio a Axl Roses e Ozzy Osbourne. Il pezzo evolve in soluzioni degne della migliore NWOBHM per cambiare strada improvvisamente e aprirsi in un finale pieno d’atmosfera e pathos.

Il secondo pezzo si apre in forte contrapposizione al finale del primo: “I don’t want to be like you” è un pugno nello stomaco. Hard Rock puro, sfacciato, intrecciato a elementi blues e una voce alta e graffiante, che risolve in un refrain ammiccante, coinvolgente e spudorato.

Con “Radio” si cambia ancora. Un riff ipnotico, figlio dei migliori Rush, che si apre in una strofa che ricorda da vicino i Black Sabbath di Paranoid, in versione accelerata e potenziata. Puro vintage tirato a lucido, sostenuto da una ritmica ossessiva, bastarda e muscolosa.

Just a man” chiude l’EP. Un pezzo nostalgico, fortemente armonico, dalle tonalità minori, carico di pathos e di energia, in cui i componenti del trio intrecciano gli strumenti creando un tappeto ritmico eccezionale, potente e aperto che sostiene e valorizza la splendida linea vocale in un perfetto canto del cigno.

Romero-Power-Trio-I

“I” è un EP degno di produzioni discografiche blasonate. C’è tanto studio e tanta arte nascosta tra le pieghe melodiche di questi 4 pezzi che lasciano il segno e penetrano nel cuore di chi ascolta. Da veri rockers, li troverete nei locali di Verona e dintorni, a suonare e a portare il loro personalissimo Verbo R’n’R in giro. Per chiunque sia troppo lontano per assistere a uno dei loro concerti c’è il loro sito: Romero Power Trio (www.romeropowertrio.it), dove ascoltare i pezzi, in pieno stile indie.

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