Danilofacose: una musica che nasce tra i vicoli di Roma e le crepe dell’anima

Danilofacose
Foto: Ufficio Stampa

Un ritorno dopo ben 5 anni di silenzio per questo artista che ha riferimenti altissimi, da Battisti a Battiato, dai Queen a Nina Simone, da Tenco ad Aznavour, ma che per questo suo lavoro è stato mosso da una motivazione ancora più alta: “Di spalle” è infatti dedicato al figlio “e a tutti i padri che vivono con stupore – e un po’ di paura – la crescita dei propri figli”.

 

Ciao Danilo, con quale musica sei cresciuto?
Ciao Ruggero, grazie di cuore per questo spazio e per l’attenzione. Sono Danilo Rusciano, cantautore romano classe ’87. Ho iniziato a fare musica a 15 anni, smanettando con beat e parole in cameretta, molto prima che arrivassero i social e lo streaming. Mi piace dire che la mia musica nasce tra i vicoli di Roma e le crepe della mia anima.
Sono cresciuto tra il pop, l’R&B, il cantautorato italiano e l’elettronica sperimentale. Non mi piace chiudermi in una definizione: ogni brano è una fotografia di quello che vivo, che osservo, che sento. Dal 2002 a oggi ho attraversato molte fasi – come artista e come uomo – e questo ritorno, dopo cinque anni di silenzio, è forse il più autentico di tutti.

Come definiresti il tuo genere musicale e quali sono i tuoi cantanti di riferimento?
Direi che il mio è un Pop contaminato. Dentro ci trovi la forma canzone, ma anche incursioni elettroniche, beat urbani, accenti cantautorali e atmosfere intime. Prendo quello che mi emoziona e cerco di trasformarlo in un suono mio. Tra i riferimenti? Tanti e diversi: da Battisti a Battiato, dai Queen a Nina Simone, da Tenco ad Aznavour. Mi piacciono gli artisti che riescono a cambiare pelle restando fedeli alla propria voce interiore.

A proposito di generi musicali, oggi quello che va per la maggiore è la trap che però ha attirato anche tante critiche, cosa ne pensi?
La Trap ha avuto il merito di portare una nuova estetica nel mainstream, e ci sono artisti che rispetto davvero, anche nel modo in cui usano il suono e la voce. Ma oggi, spesso, mi sembra una formula che si ripete. Non è l’autotune il problema – ormai lo trovi anche nel pop melodico – quanto la povertà narrativa. Quello che mi manca è il racconto. Non ho mai amato l’autoreferenzialità estrema. Una canzone, per me, deve provare a parlare a qualcuno, non solo di sé stessa.

“Di spalle” è un lavoro molto importante per te, vuoi parlarcene?
Di spalle” è una dedica a mio figlio, e a tutti i padri che vivono con stupore – e un po’ di paura – la crescita dei propri figli. Parla di quel momento in cui li vedi andare via, magari solo verso la scuola o verso il futuro, con le spalle voltate, e capisci che il tuo compito non è trattenerli, ma esserci anche da lontano. È un pezzo nato con gli occhi lucidi, scritto tra le scarpe messe al contrario, gli abbracci improvvisi, le domande ingenue. Una canzone per dirgli: “Anche quando ti sembrerà di essere solo, io sarò sempre lì, anche se non mi
vedi”.

Ritorni dopo 5 anni lontano dalle scene, come è stato questo periodo?
Un silenzio pieno. Non ho pubblicato nulla, ma ho scritto molto, vissuto ancora di più. Ho fatto i conti con me stesso, ho smesso di cercare risposte solo nella musica. Mi sono ricostruito come uomo, e poi come artista. L’arrivo di mio figlio è stato lo spartiacque: uno specchio che ha fatto crollare le difese e mi ha riportato al centro di me.

Cosa ti ha spinto a ritornare?
La musica non è mai sparita davvero. Ho provato a lasciarla, ma lei no. “La mia terapia”, un altro mio brano, nasce proprio da questa relazione conflittuale. L’ho vissuta come un amore tossico, a volte. Ma scrivere quella canzone mi ha aiutato a perdonarla. E “Di spalle” è stata la carezza dopo la tempesta. Alla fine, non sono tornato per far musica. Sono tornato perché la musica è tornata da me.

Quanto è delicato il tema della crescita?
È il tema più complesso, perché ti costringe a essere nudo. Crescere è lasciare andare. E quando sei genitore, significa accettare che tuo figlio avrà una strada sua, magari lontana dalla tua. Ma è anche un atto d’amore enorme. In “Di spalle” ho provato a raccontare quella tensione tra il voler proteggere e il dover lasciare spazio. Una canzone intima, ma che spero arrivi a chiunque abbia amato, perso o lasciato andare qualcuno.

C’entrano forse anche i social?
È un rapporto complicato. I social sono uno strumento potente, ma possono snaturarti. Per un po’ li ho evitati: avevo bisogno di silenzio. Oggi li uso in modo più consapevole. Non posto per esserci, ma per dire qualcosa. Mi piace l’idea di condividere il mio percorso, ma senza filtri patinati. Se mi mostro, voglio che sia vero. Anche quando fa male.

Cosa ne pensi dei Talent? Ti andrebbe di partecipare?
I Talent oggi sono una vetrina enorme, li seguo e alcuni mi piacciono anche molto. Se parliamo da spettatore, sono programmi ben costruiti e sanno emozionare. Ma da artista vedo anche i rischi: possono dare un’illusione pericolosa, quella di essere “arrivati” in poche settimane. Ti ritrovi sotto i riflettori, in cima al mercato, con milioni di occhi puntati addosso… ma poi?  Quando il programma finisce, resta solo il peso di dover sostenere tutto quel meccanismo con le tue forze. E non è facile, soprattutto per chi è ancora all’inizio del proprio percorso. Non a caso, anche artisti molto validi – penso a Sangiovanni o Angelina Mango – hanno sentito il bisogno di rallentare dopo l’esposizione iniziale. Quindi sì, i Talent funzionano, ma servono consapevolezza e un’identità solida. Partecipare? Oggi non saprei. Credo di essere troppo vecchio ma mai dire mai.

Prima di lasciarci vuoi rivelarci i progetti futuri?
Il 13 maggio, arriverà “Dentro la scatola”: una riflessione sul sistema in cui viviamo, spesso chiuso e alienante, ma anche sulla speranza di uscirne. E poi? Poi ci sarà molto altro. Ma un passo alla volta…

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Ruggero Biamonti
Autore con esperienza decennale presso importanti realtà editoriali quali Rumors.it (partner di MSN), Vivere Milano, Fondazione Eni e Sole 24 Ore Cultura, si occupa di temi che spaziano dall'intrattenimento al lifestyle.
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