Plebbo: “Mentine, Sushi e Coca Cola”, l’artista tennista ha cambiato servizio e ha abbracciato la vita da musicista, scorgendo nuove prospettive

Plebbo e Byron - Mentine, Sushi e Coca Cola - Cover
Plebbo e Byron – Mentine, Sushi e Coca Cola – Cover

Guido Plebani, in arte Plebbo, è un cantautore e produttore romano. Prima di dedicarsi alla musica, ha trascorso molti anni nel mondo del tennis, per poi passare dalla racchetta alla penna, scrivendo canzoni pochi mesi dopo aver imparato da autodidatta a suonare chitarra e pianoforte, con l’obiettivo di trasformare in realtà melodie ed emozioni. Il suo nuovo singolo, “Mentine, Sushi e Coca Cola”, in collaborazione con l’artista Byron, racconta il punto di vista di un uomo defunto, disteso sotto un campo di fiori, mentre riflette sulla sua vita, sugli amori perduti e sulle scelte che hanno definito la sua esistenza. È una composizione intensa, un mosaico di immagini che si mescolano tra nostalgia e surrealtà.

Buongiorno a tutti i nostri lettori e lettrici, oggi siamo in compagnia di Guido Plebani, meglio conosciuto come Plebbo. Benvenuto, come stai?

Buongiorno a voi, è un piacere essere qui, grazie per avermi accolto. Tutto bene!

Conosciamoci meglio. Dalla tua passione per il tennis a quella per la musica: cosa c’è in mezzo a questo cambiamento?

È un sentimento che è nato nell’ultimo anno in cui giocavo a tennis, avevo appena finito il liceo e mi allenavo 8 ore al giorno. Mi sono iscritto all’università, ad economia e quest’avventura coincide di pari passo con la scelta di fare musica. All’epoca nel tempo libero ascoltavo musica cantautorale anni ’70 italiana e internazionale, quindi Lucio Battisti, Pink Floyd e Led Zeppelin.

Ho imparato a suonare il pianoforte che avevo a casa, insieme ad una vecchia chitarra classica, è cominciato tutto così. Al mio compleanno i miei genitori mi hanno regalato una chitarra acustica e da lì ho iniziato a perfezionare il tutto. Poi mi sono immerso nella scrittura, è venuto tutto in modo naturale, l’ho vista come una prosecuzione del percorso tennistico. Tra l’altro, Plebbo è un soprannome che utilizzavo quando giocavo a tennis, molti amici mi chiamavano così e quindi l’ho tenuto.

Continui ancora a giocare a tennis?

Molto poco, ora mi sto dedicando più allo studio della musica. D’estate quando ho più tempo faccio qualche lezione o gioco con amici, cerco comunque di tenermi attivo.

Qualcuno a casa ti ha trasmesso la passione per il tennis?

Mio padre e mio zio, erano dei bravissimi giocatori da giovani ma poi hanno smesso entrambi verso i 18 anni, come me più o meno. Avendo partecipato a livello professionistico, ho anche avuto la possibilità di vincere dei premi.

Oggi la musica impegna una bella fetta delle tue giornate?

Sì, è la mia passione più grande, occupa un ruolo principale. Penso sempre alla musica, le dedico tutto il mio tempo libero, in questo momento sono felice del bellissimo rapporto che ho con lei.

Come definiresti oggi la tua proposta musicale?

Cerco sempre di portare contenuti che mi piacciono e che abbiano un senso da comunicare.

Quale approccio prediligi per la scrittura?

Di solito non mi sforzo mai più di tanto, non scrivo perché devo. Passo molto tempo con la chitarra a cercare di buttare giù qualche idea di produzione. Spesso alcune cose non mi dicono nulla, altre invece mi rimandano a qualche suono o giro di accordi che mi riesce a dare una visione diversa, a farmi entrare in una fotografia da descrivere; in quel momento le parole vengono spontanee.

Roma come ti ha accolto musicalmente? Hai trovato il tuo spazio?

Ho frequentato pochi ambienti musicali a Roma, tutto ciò che ho fatto l’ho fatto da solo.

Quest’estate farò qualche live e muoverò i primi passi in questo settore.

Hai già in programma qualcosa?

Ho un programma un live il 4 giugno sul Lungotevere, per il resto ci dobbiamo ancora organizzare.

Che rapporto hai con la città? Ti ispira?

È una città stupenda, mi affascina il suo aspetto collinare con degli orizzonti da scoprire. È molto variegata e mi ispira molto nella vita in generale, non mi annoia mai.

Plebbo: “Mentine, Sushi e Coca Cola”, il suo ultimo singolo
Plebbo

“Mentine, Sushi e Coca Cola”, il tuo nuovo singolo. Raccontaci la storia di questo brano…

È una traccia nata ancora prima degli altri tre singoli, l’ho scritta insieme a Byron, un amico che giocava a tennis con me. Lui è un trapper, io spazio più su altri generi e questo connubio ha dato vita ad una produzione interessante. Il testo parla della prospettiva di un defunto che ripensa alla vita; la ricchezza risiede nelle piccole cose, da qui nasce il titolo.

Perché hai voluto sperimentare il punto di vista di un defunto?

La narrazione è venuta dopo, abbiamo messo giù un testo, un’immagine. Quando la strofa si è conclusa, abbiamo unito i puntini ed è venuta fuori questo scenario particolare. È la storia di un defunto che ripensa alla vita. Non è stata una canzone programmata. Leggendo il titolo non penseresti mai che dietro c’è una storia del genere. Molta gente che ascolta il brano non pensa minimamente che si parla di un defunto, devo spiegarglielo. È un aspetto interessante perché può avere più interpretazioni.

C’è un messaggio che vuoi far arrivare a chi ascolta?

La vita è fatta di piccole cose, non cercare di concentrarsi solo su un grande obiettivo ma di godersi tutti i momenti a disposizione.

Come vi siete trovati a collaborare tu e Byron?

È uscita in modo molto spontaneo e genuino, giocavamo a tennis e ci si appassionati insieme alla musica. Ci vedevamo spesso, mettevamo a terra diverse idee, “Mentine, sushi e coca cola” penso sia il prodotto riuscito meglio.

 Ti vedi cambiato attraverso la musica come persona?

Sì e no. Superficialmente sì, faccio la vita di un artista, ma nel profondo no perché sono sempre io con le passioni di sempre.

Tutti i singoli rilasciati nel 2024 hanno un filo che li tiene uniti?

La mia prospettiva sulla vita, qualcosa che ho dentro. A fine maggio uscirà un nuovo brano e poi volevo racchiudere tutto in album che comprendesse tutti i singoli usciti finora.

Dal tuo esordio ad oggi ti vedi sotto un’altra luce con la musica?

Assolutamente sì. Dal primo brano, “Svegliati”, non sapevo come si sarebbe evoluto il mio futuro. Adesso ho tantissimi brani di cui vado fiero che non sono ancora usciti ma rispecchiano la mia situazione attuale artistica.

Tra i pezzi che hai scritto finora a quale sei più legato?

Forse “Naufrago”. Contiene una riflessione importante, va in profondità. Parla della prospettiva di una persona che si trova male a stare dove sta, a naufragare in questo mare. Cerca sempre un punto d’arrivo, non pensa al futuro. Scopre che poi questo punto fermo è raro che arrivi, alla fine bisogna accontentarsi ma cercare di vivere al meglio nello stato in cui sta in quel momento.

Plebbo e Byron
Plebbo e Byron

Ti è capitato di partecipare a dei contest?

Finora non ho ritenuto giusto partecipare per due motivi: il primo è che artisticamente sono abbastanza grezzo, anche come performer, devo formarmi ancora. Il secondo è che non li condivido pienamente, li trovo utili per farsi conoscere però va un po’ contro lo spirito della musica e dei cantanti in generale. Anche il sentirsi sempre giudicato, la tua proposta deve passare al setaccio di giudici e critici, c’è poca libertà di espressione.

Che effetto ti farebbe un tuo live?

Nel tennis la mia parte preferita era competere, partecipare ai tornei. Per questo sono molto carico per i live che arriveranno.

Noti diverse correlazioni tra il tennis e la musica. Hai trovato degli elementi in comune?

In generale penso che l’approccio debba essere lo stesso, ossia essere originali, creativi e non copiare, io l’ho sempre affrontata così. Nel tennis degli anni ’80, non essendoci telefoni, video sui social e quant’altro, non c’era la possibilità di vedere come giocavano gli altri, quindi nessuno copiava nessuno. Oggi fanno tutti gli stessi movimenti. Così anche nella musica, la possibilità di osservare più contenuti inquina la personalità, c’è poca identità, e questo ti porta ad imitare.

Progetti in cantiere?

Vorrei fare un album, ce l’ho già quasi pronto e sto dando un ordine all’idee su come arrangiarlo.

Vuoi lasciare una dedica o un messaggio a chi ci segue?

Ciò che mi sento di dire di base è trascorrere la vita facendo ciò che ci piace di più e ci fa stare bene. Tenere sempre con gli occhi aperti verso nuove prospettive, senza rimanere ancorati a determinate idee. Essere versatili e sapersi adattare a certe circostanze.

Raspa: “Backstage”,  un inno alla determinazione individuale, con la dedizione e il coraggio per restare fedeli a sé stessi

Raspa: un “Backstage” sul palco!
Raspa

Raffaele Azzolini Arizi, meglio conosciuto come Raspa, nasce a Belluno, dove inizia il suo percorso musicale dietro la batteria di diverse band, ma è l’incontro con il rap a segnare la svolta decisiva nel suo percorso artistico. Scrivere diventa per lui un’esigenza, uno strumento per canalizzare e raccontare le emozioni di rabbia e tristezza vissute durante l’adolescenza. I suoi testi sono prevalentemente autobiografici, ma non mancano incursioni in atmosfere più leggere e divertenti, creando performance coinvolgenti e sincere. Il suo ultimo singolo, “Backstage”, ne è la conferma: attraverso un testo diretto e senza mezzi termini esplora diversi concetti, tra cui la forza di volontà necessaria per affrontare ostacoli e la ricerca di un’autenticità che non scende a compromessi. Raspa non ha mai smesso di credere nel potere della musica come strumento di verità e originalità.

Bentrovati nel consueto appuntamento settimanale. Oggi ci troviamo in compagnia di Raffaele, in arte Raspa, giovane rapper del nord d’Italia. Benvenuto tra noi, come stai?

Buongiorno a tutti voi, grazie per questa opportunità, è un piacere essere nel vostro spazio!

Partiamo dal motivo principale per il quale ci troviamo qui: la musica. Che rapporto hai con lei?

La musica è come se fosse un tutt’uno con me, fa parte della mia vita fin da bambino, alle medie ho iniziato come batterista in gruppi punk, metal, rock, e quant’altro. In seguito, ho abbandonato un po’ la band perché era complicato far collimare insieme cinque teste, ognuno ha preso la propria strada; la mia è sfociata nel rap, è una scelta venuta da sé. È successo in un momento della mia vita privata in cui sentivo di dover esternare, in generale non sono una persona loquace e l’unico modo era scrivere testi. La musica è il mio ossigeno, è indispensabile.

Quando hai capito che fosse necessario fare questo cambio?

Quando non riuscivo a esternare ciò che volevo semplicemente parlandone con qualcuno. Mi sono buttato sui testi perché era l’unico modo per comunicare e per sfogarmi. È un processo terapeutico, anche se non riesco ad andare avanti, mi fa andare avanti.

Perché hai scelto il rap come genere?

Mi piace sperimentare e scoprire le novità, questo genere è sempre molto versatile. Poi perché è diretto, crudo e senza censure.

“Raspa” da dove viene?

Deriva da un mio amico che in seconda superiore mi chiamava così, era l’unico ad avermi dato questo soprannome. Non c’è un vero e proprio nesso o significato. Quando ho cominciato con il rap dovevo cercare un nome d’arte e mi è venuto in mente lui. Prima mi ci chiamava solo lui così, ora tutti.

Raspa - Backstage - Copertina
Raspa – Backstage – Copertina

Come ti sei trovato a fare musica a Belluno?

Qui in ambito musicale c’è qualcosa ma per il mio genere un po’ meno, quasi nulla. Quando facevo il batterista c’erano dei locali che davano la possibilità di suonare. Oggi sono costretto a spostarmi.

Quanta importanza dai al registro linguistico?

Peso molto le parole da utilizzare, quando scrivo cerco sempre di scegliere la parola giusta che possa amalgamarsi al meglio con le altre, come significato e come concetto. I miei testi sono prettamente autobiografici, racconto ciò che vivo e per questo sono molto spontaneo ed istintivo.

Entriamo nel “Backstage”, il tuo nuovo pezzo. Ci racconti la sua storia?

Nasce da uno sfogo personale, avevo voglia di dare determinazione a chi mi avrebbe ascoltato. Questa traccia l’ho scritta sette anni fa, solo che poi è rimasta nel cassetto. Ho deciso di riprenderla in mano perché pensavo che, anche a distanza di anni, avesse del potenziale. Ci abbiamo lavorato da capo, abbiamo rifatto la produzione e reso il sound più contemporaneo. Già all’inizio l’avevo concepito come un pezzo di denuncia, diretto, e purtroppo a distanzi di anni è rimasto tale come concetti.

Cosa hai stravolto nella produzione per rendere questo brano più attuale?

Volevo renderlo più fresco con suoni più incalzanti e più ritmati. Prima era molto più spoglio.

Nel testo fai una critica ai rapper di oggi. Quali sono gli aspetti che ti deludono di più?

Sembra che oggi tutti scrivano per moda. Si è superficiali, lo si fa non con il cuore ma perché te lo impone il mercato. C’è poca originalità, qualcuno copia sempre qualcun altro e quindi viene meno l’autenticità e la personalità.

Perché hai preso spunto dalla serie “SmackDown” per il titolo?

La guardavo spesso da piccolo, era divertente. Il riferimento al mio brano è ad un lottatore, Eddie Guerrero, mi era rimasta impressa questa scena in cui lui si portava dietro i suoi problemi anche dietro le quinte. Mi sono rivisto in lui perché anch’io spesso mi porto la vita privata sul palco e nella musica.

C’è stato un momento nella tua vita in cui ti sei sentito un po’ “dietro le quinte”?

Mi ci sento spesso, non vengo capito su determinate questioni musicali.

Quando l’hai pubblicata avevi in testa l’obiettivo di trasmettere qualche messaggio a chi ascolta?

Volevo solamente che questa canzone trasmettesse la carica e l’energia alle persone in modo tale da fargli intraprendere o riprendere qualche percorso nella vita con determinazione.

Raspa

Hai partecipato a qualche festival? Vuoi raccontarci qualche esperienza?

Ho partecipato ad un festival a Piacenza, mi sono portato anche un gruppo di ballo a performare con me sul palco, abbiamo fatto una cosa innovativa per la città. Ho partecipato anche ad un concorso in cui come giudice c’era Morgan, gli ho portato una canzone che è stata molto criticata dal punto di vista dell’esibizione; ma nonostante non avessi superato le selezioni, ho ricevuto da lui il premio come miglior testo.

Hai fatto anche delle aperture?

Sì, ho aperte a Il Tre, Mondo Marcio e Alfa, quest’ultimo ad agosto 2024. Mi sono trovato benissimo, è stato divertente! Abbiamo fatto il nostro piccolo live show di mezz’ora, il pubblico era abbastanza preso da ciò che stavamo facendo. Sottopalco quando siamo scesi ci hanno seguito per chiederci delle foto e alcuni continuavano a cantare dei ritornelli.

Con la musica ti vedi sotto un’altra luce?

Quando ho cominciato con il rap ero molto crudo, cattivo, dovevo sempre sfogare la mia rabbia. Con il tempo mi sono un po’ ammorbidito, ho ampliato il mio essere artista buttandomi anche sul pop.

Fare musica è un’arte non per tutti. Come vivi questa dimensione?

Nel quotidiano mi piace più ascoltare che parlare, quindi sono contento e grato di donare alla musica una parte di me. Al tempo stesso, mi dà sicurezza, è il mio porto sicuro.

Una tua peculiarità quale potrebbe essere?

La schiettezza. Lo sono anche nella vita di tutti i giorni. Da un lato è un pro e dall’altro è un contro, a volte devo essere meno diretto e più pacato, con qualche filtro in più, perché dico troppa verità.

Prossimi programmi in agenda?

Voglio provare a far parte di qualche talent perché mi piace mettermi in gioco. Sto anche organizzando dei live sia nella mia città che altrove. Ho tante tracce pronte da pubblicare durante quest’anno.

Sogno nel cassetto?

Vivere di musica, avere un pubblico davanti con il quale divertirsi cantando le mie canzoni.

Hai un messaggio che vuoi lasciarci?

Continuare a fare ciò per cui si crede, andare avanti con le proprie forze senza farsi influenzare o scendere a compromessi, esseri veri.

Loki: “Iconic Warrior” un chiaro richiamo alla figura del samurai, sempre in evoluzione, in lotta con sé stesso e con il mondo che lo circonda

Loki: “Iconic Warrior”, inno alla resilienza
Loki

Gianluca Moser, in arte “Loki”, è un giovane artista trentino che si muove agilmente tra le diverse espressioni del rap attraverso giochi di parole ben messi in metrica. Grazie alla sua capacità di connettere il pubblico attraverso testi profondi e un sound originale, si presenta come uno storyteller e un paroliere dalla grande personalità e dal forte carisma. Il contenuto è il suo punto di forza: durante la stesura di un testo si lascia trasportare dalla fantasia, dai vocaboli, dalle radici e dalle desinenze di ogni singola parola. Il suo ultimo singolo, “Iconic Warrior”, incarna la lotta interiore e la determinazione nel superare ogni ostacolo. Attraverso rime serrate e l’uso di metafore Loki riesce a trasmettere un potente messaggio di resilienza e umanità. Le sonorità della produzione sono caratterizzate da un forte dinamismo musicale e vengono arricchite da suggestivi effetti dal sapore giapponese.

Eccoci con un nuovo appuntamento sulle nostre pagine. Oggi accogliamo il giovane Gianluca, in arte Loki, bentrovato tra noi! Come stai?

Buongiorno a voi, grazie per l’opportunità. Tutto bene, sono carico per il presente!

Ottimo! Come procede la tua storia con la musica?

Oggi è la mia fonte principale di sfogo e di amore, sia verso me stesso che nei confronti altrui. Non potrei mai rinunciarsi, è diventata un’ossessione.

Hai coltivato questa passione da adolescente?

Fino all’età di 12-13 anni scrivevo poesie, poi pian piano, entrando del mondo del mio paesino, ho visto tanti ragazzi che facevano freestyle e hip hop; mi è piaciuto e così le mie poesie si sono trasformate in testi rap e pop. Dopo tanto allenamento sia in musica che in canto sono riuscito a gestire il mio lavoro. È stata una scintilla che involontariamente mi ha scelto.

C’è un genere che senti più affine alla tua penna?

Il rap è scontato quindi ti dico il soul, l’R&B, con un po’ di jazz e di blues; il risultato è un sound ritmatico e delicato alla vecchia maniera.

Quali sono state le tue influenze maggiori?

Essendo un amante delle poesie, mi sono lasciato influenzare dai poeti francesi, in primis la mia penna nasce da lì. A livello di rapper da ragazzo ero fissato con J. Cole, essenziale per la mia crescita stilistica e personale.

Loki: “Iconic Warrior”, inno alla resilienza 1
Loki

Come hai scelto il tuo nome d’arte “Loki”?

Non l’ho scelto io ma me l’hanno dato gli altri. Da ragazzino avevo i capelli con tutte queste punte per aria curate a mo’ di crestona. C’era un personaggio di “The Mask 2” che si chiamava proprio Loki e aveva questi capelli particolari; da quel momento i miei compagni di classe hanno iniziato a chiamarmi così. Poi, approfondendo questo nome nella mitologia nordica dei vichinghi, mi sono appassionato a quel discorso. È una figura particolare che vuole fare del bene al mondo anche se non si direbbe. Ho fatto mio il personaggio, non solo a livello di sembianze.

Le tue origini mi incuriosiscono. Trento come ti ha accolto?

Nel mio sobborgo a Meano, una piccola frazione di Trento, siamo stati molto fortunati e bravi a non mollare, ora siamo un bel gruppo. I ragazzi rappano da diversi anni, siamo affiatati. Ci ritroviamo spesso in studio o al parco a fare dei freestyle e da anni si tramanda questa tradizione che è diventata casa. Porto il mio paese anche nella scrittura, ho un legame indissolubile con le mie radici.

Ho letto attentamente i tuoi testi e ponderi bene le parole che usi. Quanto lavori sul tuo registro linguistico?

Ci lavoro parecchio, dipende sempre dall’ispirazione. Mi annoto subito la barra quando mi viene in mente, la registro anche col telefono. Se vedo che può venir fuori qualcosa di serio butto giù tutto quello che mi viene, faccio un brainstorming. Nel lavoro di revisione sono molto meticoloso, potrei chiudere un brano in due giorni come in un mese.

Parliamo di “Iconic Warrior”, il nuovo singolo. Ci raccontaci la sua storia?

È una canzone che avevo nel cassetto, risale a circa 2-3 anni fa ma l’ho pubblicata tardi. È nata in un periodo in cui ero molto stressato a livello personale e lavorativo, psicologicamente ero appesantito. Mentre ero a spasso col cane mi è passato per la testa questo “Iconic warrior” e l’ho ripetuto per tutta la camminata. In quel periodo, tra l’altro, stavo in fissa con la cultura giapponese, mi guardavo combattimenti che sapevano di rivalsa. Ricordo che scrivevo tantissimo, avevo in serbo tante rime e quando sono arrivato in studio in due ore abbiamo letteralmente chiuso tutto.

La musica riesce quindi a metterti a nudo?

Sì, assolutamente, è terapeutica. È l’unico campo in cui riesco ad esprimermi al 100%. Essendo una personata riservata, la musica è l’unico approccio che mi permette di togliere la maschera.

Perché ti sei avvicinato alla figura del samurai? Cosa ti ha spinto?

Sono un grandissimo amante dei manga, ero già improntato fin da piccolo a concentrarmi su quello scenario. Poi studiando la storia dei samurai e dei loro codici, mi sono rivisto in questa disciplina molto maniacale, in cui si ricerca spesso il dettaglio, si è minimalisti, precisini, Mi ci sono immerso anche perché praticavo kickboxing e arti marziali, è stato un coinvolgimento a 360 gradi.

Loki: “Iconic Warrior”, inno alla resilienza 2
Loki

Non è il tuo primo richiamo alla figura del guerriero. Che correlazione c’è tra voi?

Non arrendersi mai anche quando arrivi allo stremo delle forze. Il samurai l’ho fatto mio per questo. Avevo voglia di non piegarmi davanti a niente e nessuno, ma sempre con l’umiltà e l’eleganza di un combattente come Rocky Balboa, seguendo una disciplina. Il combattimento nasce prima da un fattore mentale per raggiungere l’obiettivo, senza cadere nella fragilità e nella superficialità. Voglio combattere per superare i propri limiti e migliorarmi.

“La vita è come una partita a dama”: spiegaci questa frase…

L’ho scritta proprio mentre giocavo a dama. Vedevo scorrere le pedine avanti e indietro, chi mangiava, chi veniva mangiato, e riflettevo. Il senso si estende alla vita, chi mangia, chi salta e chi prende. La dama è un gioco di strategia che ti insegna a non mollare e a riprovarci anche se hai perso. Si può inciampare, bisogna stare attenti alle proprie mosse e alle possibili conseguenze.

Cosa vuoi far arrivare all’ascoltatore?

Voglio far trapelare questo senso di rinascita che ognuno può assaporare. Nulla è perduto, si deve aver sempre la curiosità di esplorare nuovi mondi. Dopo una caduta arriva sempre la luce alla fine del tunnel.

Quanta responsabilità senti di avere nel veicolare certi messaggi?

Tanta. Non sono così famoso però chi ti ascolta ha sempre l’ultima parola, quindi, bisogna saper dosare bene le parole e in che modo dirle. È una bella responsabilità che però non mi pesa sulle spalle, sento di avere i mezzi adeguati e un lessico abbastanza approfondito.

Qual è il momento più bello della tua gavetta?

A Bolzano, l’anno scorso, quando abbiamo aperto il concerto a Jack the Smoker, pioniere della cultura rap e hip hop. Nel post serata siamo rimasti insieme a parlare, a bere qualcosa e a fare freestyle. È stato come chiudere un cerchio. Per noi della scena underground è un maestro. Suonare nella nostra regione è stato fantastico, una doppia vittoria.

Cosa ti piace fare nel tempo libero?

Leggo una marea di poesie e sono un amante del teatro. L’anno scorso abbiamo debuttato nel nostro paesino, sono un attore amatoriale.

Descrivici cosa rappresenta per te il palco in questa doppia veste

Stare sul palco mi dà tantissime emozioni, cantare dal vivo, recitare. Per me è la prova del 9, rappresenta la vita, è casa.

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Loki

Con quale brano che porti sul palco hai un legame particolare?

Ti direi proprio “Iconic Warrior”, è il mix giusto tra l’adrenalina e un pensiero curato che c’è dietro.

Programmi per il futuro?

Tra poco uscirà un bel progetto vecchie maniere con il mio grande socio, è stato un maestro per me. Per quanto riguarda Loki solista c’è una valanga di roba che stiamo sperimentando.

Il sogno più grande che tieni nel cassetto?

Fare un live a San Siro.

L.E.D. : “Eden”, l’anti-paradiso della società, una narrazione complessa ma disinvolta sulle contraddizioni dell’esistenza umana in preda all’oblio

L.E.D. : “Eden”, l’anti-paradiso della società
L.E.D.

I L.E.D. sono un gruppo musicale nato nel 2015 a Vigevano da una collaborazione artistica tra Massimiliano Tordini  e Marco Mangone. Hanno una maturità discografica alle spalle con diverse esperienze collezionate sul campo, ma sono ancora in stand by, in attesa di trovare la propria strada. Nei loro brani raccontano come l’umanità si possa spesso trovare intrappolata in dinamiche di disuguaglianza che prescindono dall’esistenza di un Dio o dall’appartenenza a una fede. Il nuovo singolo, “Eden”, con uno stile fresco di stampo rock alternativo, racconta come il diritto di seguire la propria vocazione non è universale, ma dipende dal contesto in cui si nasce. In troppe parti del mondo, i diritti fondamentali vengono negati, soffocando sogni e aspirazioni prima ancora che possano germogliare. Il testo esplora le più profonde contraddizioni dell’esistenza umana, spesso inconsapevole delle forze che la guidano.

Risucchiato dal vortice di un’apatia diffusa. L’Eden, simbolo di perfezione e giustizia, si trasforma così in un miraggio irraggiungibile, un luogo che avrebbe dovuto esistere ma che, nei fatti, non è mai stato.

Buongiorno a tutti/e, oggi diamo il benvenuto a Massimiliano Tordini e Marco Mangone, componenti della band dei L.E.D.! Siamo lieti di avervi tra le nostre pagine, come state?

Buongiorno e grazie per averci ospitato. Tutto procede bene!

Come vi siete conosciuti?

È passata una vita. Prima di essere musicisti siamo soprattutto amici. Io e Max, essendo della stessa città di Vigevano, ci conoscevamo già da tanti anni, ma entrambi all’inizio suonavamo in due gruppi diversi. Il fato ha voluto che questi due gruppi si siano sciolti quasi contemporaneamente e abbiamo deciso di fare qualcosa insieme, abbiamo iniziato dieci anni fa esatti. Siamo amici nella vita ancor prima che compagni nella musica. Conosciamo i nostri pregi e difetti, ci sopportiamo e ci supportiamo.

L.E.D. - Eden - Artwork
L.E.D. – Eden – Artwork

Nella vostra zona quante possibilità di suonare ci sono?

Gli spazi che c’erano una volta hanno chiuso, i club si sono trasformati in altro. Pavia negli anni ’90 e nei primi del 2000 era ricca di posti in cui suonare, c’è sempre stato un giro importante di musica e di musicisti. Ora non frequentiamo più certi ambienti, la nostra provincia così come Milano è diventata abbastanza selettiva. O si fanno cose medio grandi o si fa altro. Ora non c’è più quel fermento di una volta, oggi a Vigevano siamo in quattro i gruppi in attività, tutti con esperienza. Non c’è quell’investimento culturale nella musica come si faceva circa 20-30 anni fa.

Da dove viene il nome L.E.D.?

Di base non significa nulla, ci immaginiamo questa luce che arriva un po’ dappertutto e irrompe in una stanza buia, dove c’è una situazione di angoscia. L’idea era quella di un faro che illumina, una luce guida che ti salva. Noi siamo abbastanza crepuscolari, non siamo così solari ma neanche super dark, una via di mezzo, con giorni di sole e altri in ombra, come nella vita di tutti i giorni del resto.

Da quante persone è composta la vostra band?

Siamo in quattro, io e Marco voce e chitarra, Walter Clemente al basso e Yureck Borini alla batteria.

Siete tornati sulla scena con “Eden”, il nuovo singolo. Raccontateci di cosa parla il brano…

Questo pezzo nasce dalla nostra creatività, siamo andati in studio e abbiamo arrangiato un pezzo. Rappresenta ciò che la società ci propone, penso che sia la storia di un amore che si contrappone ai dogmi attuali, un sentimento ideale che soccombe alla velocità e all’approssimazione del vivere contemporaneo. È qui che si consuma la sconfitta della bellezza autentica, schiacciata dall’ansia di un tempo che corre senza sosta. Oggi sembra che tutto ciò che non appartiene alla società dev’essere visto per forza come un qualcosa di diverso, quindi demonizzarlo. Invece non è così. Questa non è una storia a lieto fine perché i due personaggi finiscono per dissolversi nel nulla. Vengono smembrati da una società che ci proietta verso una non accettazione della differenza altrui, il razzismo, le ingiustizie sociali.

L.E.D. : “Eden”, l’anti-paradiso della società 2
L.E.D.

Da cosa deriva questa inconsapevolezza collettiva?

Dalla perdita di personalità. L’impronta mediatica è molto pericolosa e controproducente; oggi c’è una disinformazione così marcata che porta ad un raffreddamento mentale, culturale e psicologico che un po’ mi spaventa.

Perché Eden come titolo?

Nell’immaginario collettivo e nella religione l’Eden è un posto in cui non ci sono discriminazioni, differenze, un luogo ideale e giusto in cui vivere, però non siamo capaci di vederlo o realizzarlo e per questo ci appare un miraggio irraggiungibile. Questa canzone è il suo perfetto opposto.

Qual è un vostro aspetto che vi contraddistingue?

Siamo molto professionali nell’approccio alla musica. Abbiamo raggiunto un livello elevato e siamo consapevoli dei nostri mezzi. Abbiamo mantenuto la voglia di dire quello che abbiamo in testa, senza troppi pensieri o metafore, ma in modo limpido e diretto. Abbiamo bisogno di fare musica, ci piace e ci fa stare bene insieme.

Il momento più bello della vostra carriera finora?

Abbiamo suonato all’Ariston nel 2021 alle finali di Sanremo Rock ed è stato emozionante, quel palco equivale ad entrare in una cattedrale o in un museo, o come star davanti alla Gioconda. In generale, comunque, per noi il palco è una comunione con chi sta davanti, una messa comune, un rito magico.

L.E.D.

Il 12 maggio esce il vostro nuovo album. Qualche anticipazione?

Si intitola “Il coraggio delle tre del mattino” ed è composto da undici tracce. Ci abbiamo messo un anno per realizzarlo, abbiamo cominciato a scrivere a gennaio 2024 e subito dopo abbiamo registrato tutto. Già verso fine anno il disco era pronto per uscire.

Avete aspettative su questo progetto?

È come quando ti viene fuori un figlio e pensi sia il migliore del mondo; vuoi fargli fare la carriera più ricca e longeva possibile e gli auguri di essere felice nella vita. Suonarlo dal vivo sarà come quando un figlio si sistema ed infatti già non vediamo l’ora di fare roba nuova.

Il vostro sogno più grande?

Poter valorizzare al meglio i nostri sacrifici e tutto quello che abbiamo fatto finora legato al mondo della musica.

Un messaggio che volete lasciare a chi ci segue?

Siate curiosi, in essa potete trovare delle belle sorprese.

VDV, “Spara bambina” il singolo d’esordio, l’amore svanisce quando smetti di credere ed è un attimo che si tramuti in una guerra

VDV: “Spara bambina”, un’arma a doppio taglio
VDV

Veronica Del Vecchio, in arte VDV, è nata e cresciuta in provincia di Milano; ha fondato le sue radici nel mondo del rap ma con uno sguardo rivolto alla tradizione cantautorale italiana. La sua musica esplora a fondo l’animo umano, cercando di restituire un significato profondo e autentico in un’epoca dominata dalla superficialità. I suoi testi sono un viaggio verso la riscoperta dell’autenticità, caratteristiche che contraddistinguono le grandi storie e nella scena contemporanea. Il suo singolo d’esordio, “Spara bambina” sfida la ragione con la follia: vengono toccati temi attuali come la guerra, l’odio e l’amore, la pace, cercando risposte a questi conflitti universali. Ma quest’ultime non si trovano nei luoghi, nelle persone o nelle parole altrui, ma sono all’interno di noi stessi, basta scavare.

Buongiorno e bentrovati/e, oggi ci troviamo in compagnia di Veronica Del Vecchio, in arte VDV. È un piacere averti nel nostro spazio! Come stai?

Buongiorno a voi tutti/e, è un piacere mio essere qui e grazie per avermi accolto. Sto bene, sono contentissima!

Battiamo subito il primo colpo: “Spara bambina”, il tuo singolo d’esordio. Raccontaci la storia e il significato di questo brano

Questa canzone viene fuori perché sono una fanatica della storia e come ben sappiamo è segnata anche e soprattutto da guerre. Ho mischiato quello che ho studiato all’attualità e mi è nata la visione di questa bambina con in mano una pistola, è stato il mio primo riferimento. È un’immagine molto potente e per questo ho dato molto peso al simbolismo. La bambina rappresenta purezza ed innocenza, la pistola è completamente l’opposto: insieme creano un ossimoro, quest’idea mi piaceva tantissimo. Tutto il racconto del brano si focalizza su un percorso, cercare di capire perché ancora oggi esiste la guerra; a tal proposito faccio dei riferimenti alla patria, al paradiso. Il viaggio si conclude quando la bambina cerca le risposte altrove, al di fuori di questo mondo ma non le trova; arriva quindi alla conclusione che finché non ci sarà la pace dentro di noi, all’esterno ci sarà sempre la guerra.

Come ti sei sentita nel realizzare questa canzone? Cosa hai provato dopo l’uscita?

Gioia prima di tutto. Per me era importante manifestare la propria opinione e il modo più semplice che avevo era la musica.

VDV - Spara bambina - Cover
VDV – Spara bambina – Cover

Partendo dal testo, secondo te in che modo l’amore è correlato alla guerra?

Quest’immagine la riassumo così: mi sono immaginata l’amore per la patria che è un qualcosa che si tramuta in guerra perché per la propria patria si è disposti anche ad uccidere. Ho pensato a queste persone con la stessa bandiera che lottavano per i propri principi. Di solito, si lotta per degli ideali, si amano ma non si pensa mai al prossimo.

 “L’odio è al calibro di tutti”: cosa intendi dire con questa frase?

Siamo costantemente a riparo dai bombardamenti di critiche, si sta subito con il mirino puntato. L’odio è il modo più facile per controllare e limitare le persone. Tutti son capaci a odiare ma non tutti sono disposti ad amare.

C’è un messaggio che vuoi far arrivare nello specifico?

Dobbiamo guardare più spesso dentro noi stessi, cercando di trovare migliorie che ci fanno accettare l’altro.

Come hai conosciuto l’etichetta di Altavibe?

Ho conosciuto Lorenzo Cazzaniga e mi ha preso sotto la sua ala. È un’etichetta appena nata ma è piena di esperienza. Un giorno sono entrata nel loro studio e abbiamo iniziato a collaborare.

La passione per la musica è innata dentro di te?

È l’essenza della mia vita, fin da bambina volevo fare la paroliera e infatti ho sempre scritto canzoni e ho interagito sia con essa che con la forma della poesia. Ricordo che ero una vera fan di Laura Pausini quindi cercavo di scrivere canzoni più simili a quelle che scrivevano per lei; poi crescendo mi sono dedicata più alla poesia. Un giorno ho deciso di unire la metrica della poesia al mondo musicale ed è nata VDV.

VDV: “Spara bambina”, un’arma a doppio taglio 2
VDV

Chi ti ha indirizzato verso il rap?

Parto con il dirti che un artista dal quale prendo spunto è Caparezza, mi piace molto il modo di comunicare il suo stato d’animo, il suo malcontento e come lo tramuta in musica. Riesce lo stesso a far divertire la gente lanciando messaggi importanti e profondi. La musica ha tutto questo potenziale.

Raccontaci un episodio che hai vissuto con la musica che ti è rimasto impresso nel cuore…

Il genere rap tendenzialmente ha un target piccolo e ristretto. Durante un live ricordo che c’era una donna anziana, over 70, che mi ha fatto i complimenti per la canzone e mi sono venuti i brividi. Me la porto dentro, il mio obiettivo è far capire che il rap non è solo quello che si sente oggi ma c’è anche dell’altro. Bisognerebbe allargare i confini di questo genere perché sembra che abbia un’etichetta di nicchia.

Il tuo processo di scrittura come si svolge?

È sempre una sensazione bellissima, sento che la mano parte da sola. Mi siedo, mi metto in cucina, prendo il mio quaderno e inizio a scrivere di getto, senza pensare alla metrica. La prima impronta è sempre la più spontanea, per cui un testo lo scrivo anche in 20 minuti; mi lascio influenzare molto dall’attualità e da ciò che mi circonda. Dopodiché arriva la parte di revisione, che è fondamentale, in cui cerco di far quadrare le rime con la metrica della musica.

Scrivere per te è terapeutico?

La scrittura mi ha fatto assaporare una certa profondità personale che ho costruito nel tempo. La musica mi ha anche aiutata nel trattenere la rabbia e mi ha salvato dalla tristezza. Come dice Ligabue, quando una persona è felice esce a bere con gli amici, quando è triste fa musica. Nel momento negativo hai bisogno di una valvola di sfogo. Quando scrivo è come se tutto il mio malessere si spostasse sul foglio; è un flusso che avviene in modo inconscio.

Quale aspetto personale hai voluto conservare nella tua vita?

Il mio essere solitaria che non va frainteso perché sono super espansiva. Se posso, preferisco restare a casa anziché uscire. La solitudine non significa per forza stare da soli ma semplicemente mi ritaglio dei momenti per me stessa.

Nel tempo libero porti avanti qualche hobby?

Leggo molto, gioco a padel e mi piacciono tantissimo le parole crociate.

Coltivi l’arte in varie forme. Che legame hai con lei?

L’arte è tutta bella ma è soggettiva, può piacere e no. Ti offre il modo migliore per esprimerti; è come se noi stessimo in silenzio e lei parlasse al posto nostro.

Programmi per il futuro?

A breve uscirà un nuovo singolo e poi mi piacerebbe lavorare su un EP.

Obiettivi che speri di raggiungere?

Sono ambiziosa ma nella musica non voglio pormi obiettivi numerici. L’unico che mi sto imponendo è far uscire ogni tot un singolo e non mollare mai.

Progetti in cantiere?

Il mio sogno è fare un live su un grande palco, magari un palazzetto.

Un messaggio che vuoi lasciare a chi ci segue?

Non abbandonate mai la curiosità, è la via fuga da ogni cosa.

Aua: le “Fortune” della vita, la fortuna esiste, si manifesta ma si nasconde dappertutto, anche nei luoghi più impensati e inaspettati

Aua il nuovo album "Fortune", le mille sfaccettature
Fortune l’ultimo progetto di Aua

Aua è una cantautrice gardesana che ha dimostrato che, con un pizzico di incoscienza, si può arrivare ovunque, anche al Festival di Sanremo all’età di soli 20 anni nel 2001. “Fortune”, il nuovo progetto, è il risultato di un viaggio interiore attraverso le molteplici sfaccettature della fortuna, filo conduttore che unisce le nove tracce dell’album, composte da un sound evocativo e testi profondi in grado di riflettere le complessità e la bellezza di queste storie.

Ogni pezzo trae ispirazione da donne diverse, catturate in momenti significativi delle loro vite, ognuna con una prospettiva unica sulla fortuna. All’interno è contenuto anche un nuovo brano, “Calling”, il racconto di due ragazzi che sono appena diventati adulti, alle prese con le sfide della vita, tra cui quella di seguire la propria strada senza dimenticare il richiamo dell’amore.

Buongiorno e bentrovati/e nel nostro spazio settimanale. Oggi siamo in compagnia di Aua, benvenuta! Come stai?

Buongiorno a voi, grazie per avermi ospitata, è un piacere stare qui. Sto bene, tutto procede.

Partiamo dal tuo nome d’arte di sole tre lettere: Aua. Da dove viene?

Dal mio nome, mi chiamo Annalaura e quando ero piccola mi chiamavo Aua, era un suono infantile. Da quel momento anche i miei amici hanno continuato a chiamarmi così quindi l’ho tenuto.

Com’è iniziata la tua avventura con la musica? Raccontaci un po’ del tuo passato…

Ho avuto sempre un approccio personale, cercando di trasmettere tutto ciò che ho dentro. Ho iniziato scrivendo poesie, c’erano solo testi senza musica. Poi ho scoperto che la forma della canzone fosse la più adatta per comunicare i miei sentimenti e stati d’animo. Mi ispiro ai songwriter, coloro che partono dalle parole. Per farti qualche nome ti dico Joni Mitchell, Lana del Rey, Taylor Swift, tutte cantautrici.

Aua - Fortune - Copertina
Aua – Fortune – Copertina

Hai mai pubblicato qualche tua poesia?

No, non l’ho mai fatto ma magari un giorno mi piacerebbe.

Che ricordi musicali hai da bambina?

Ricordo che andavo sempre in macchina con mio padre che ci portava a fare dei viaggi di famiglia. Lui era un bravissimo cantante, aveva una voce stupenda quando cantava; ci faceva ascoltare le canzoni di Mina, Gino Paoli, Tenco, in pieno stile anni ’60. Erano momenti di tenerezza.

Il tuo approccio alla scrittura come funziona?

Sono abbastanza spontanea ma di solito abbraccio la mia chitarra acustica. Mi vengono in mente dei concetti da esporre e con degli accordi li metto in melodia.

Cosa provi quando hai la chitarra in mano?

Come per tutti gli strumenti a corde, è fondamentale la vibrazione, ciò che senti quando ce l’hai in braccio. Oltre al suono, intendo proprio la vibrazione del legno, il calore che emana.

Hai un momento della giornata in cui ti riesce meglio scrivere?

Di sera, sei più con te stesso, non hai distrazioni. Forse, la stanchezza della giornata ti fa scaturire un po’ di sensazioni più intime.

Sei originaria di Brescia, vicino al Lago di Garda. Che sensazioni ti dà questo posto?

Mi ispira tantissimo. Il lago per me è un punto di riferimento, mi trasmette calma. Mi piacere vedere l’acqua ogni mattina quando mi sveglio. È un posto cullante e rilassante.

Immergiamoci nel tuo nuovo album, “Fortune”. Cosa contiene?

Contiene i tanti volti della fortuna che possono manifestarsi in modi diversi. All’interno dell’album ci sono nove storie che possono essere positive e negative. Il concetto di fondo è che tutto ciò che ci capita ci può portare ricchezza. La fortuna non è singolare ma plurale.

Aua il nuovo album "Fortune", le mille sfaccettature 2

Ci credi nella fortuna?

Sì, più che altro credo nella provvidenza, un po’ manzoniana. Penso che ci sia sempre qualcosa che succede nella vita e che poi ti porta da qualche parte. Non si può definire proprio come un concetto tattile, è un po’ un effetto che ti porta a far accadere qualcosa.

Una volta che hai finito di lavorarci e l’hai riascoltato, cosa ci hai trovato dentro di tuo?

Tanti aspetti, anche perché tutti i testi raccontano di fatti che mi sono capitati e che riguardano anche altri. Spero davvero che la fortuna giochi la sua partita per salvare alcune persone, le cui storie sono raccontate nelle varie canzoni.

Scegli una di queste nove tracce che per te rappresenta di più l’album…

Secondo me proprio la prima, “Fortune”, perché lì c’è una chance in più e maggior tempo a disposizione; dà la prospettiva di un dopo.

Un filo conduttore che lega questo progetto?

Un senso di libertà, di potersi esprimere e far emergere la propria persona, senza giustificarsi o sentirsi giusti o sbagliati.

Nel nuovo album è uscito anche un pezzo inedito, “Calling”: che significato ha per te?

È un brano molto carino, parla di questi ragazzi che si sono appena affacciati alla vita adulta, non sanno benissimo da che parte andare, non hanno una via ben definita. L’invito è buttare via i pesi che ci portiamo dietro, suona infatti come una chiamata a non avere troppe aspettative. Bisogna far attenzione a come riempire lo zaino per il nostro cammino. A volte è troppo pesante, dev’essere della nostra misura, deve contenere il necessario e l’indispensabile.

Incontrare la musica è stata la fortuna più grande della vita?

Assolutamente sì, la musica fa parte di me e del mio quotidiano, tutti i giorni. Da una parte mi dà la forza e dall’altra mi consola. Senza, non sarei io.

Di solito si dice che per un artista il secondo album è sempre più difficile del primo. Anche per te è stato così?

Sì, perché c’è la voglia di confermarsi e di superarsi e personalmente è un fattore che influisce. Ci metti tutto te stesso e la prendi come una sfida quasi.

Aua il nuovo album "Fortune", le mille sfaccettature 3

Che passo senti di aver fatto con questa pubblicazione?

È stato un lavoro abbastanza maturo, ho deciso di unire l’elettronica con l’acustica. Credo di aver fatto un passaggio fondamentale.

Porti avanti da sola questo progetto?

No, c’è anche mio marito che, oltre ad essere chitarrista, cura tutta la parte di design. Lui è anche un digital artist, mi piacerebbe che anche lui trovasse il modo di pubblicare, unendo sia la musica che l’arte.

Tu come la vivi l’arte?

Con lei ho un rapporto molto stretto, mi piace questo mondo. Vado a vedere spesso l’arte visiva, mi affascina. Secondo me è un segno divino che esiste sulla terra. È una fortuna che esista, per tornare al discorso di prima.

Oltre alla musica come ti piace trascorrere il tuo tempo libero?

Mi piace camminare, andare in bicicletta e pratico un po’ di sport, tra cui snowboard, beach volley, Mi piace muovermi e stare nella natura.

Rifaresti Sanremo?

Sì, ma come autrice di un artista in gara. Non lo rifarei come partecipante.

Qual è il tuo obiettivo da raggiungere?

Vincere un premio, la mia massima aspirazione è quello di Tenco. Se parliamo di sogni è perfetto.

C’è una frase nel tuo diario personale che ti rappresenta meglio di altre?

Sì, ce l’ho scritta sui miei profili social: “Di nascosto dai miei giocattoli mi diverto con cose vere”. Non devono offendersi i miei giocattoli ma io voglio divertirmi con la realtà.

Elso: “Milano”, racconta della dualità della vita di provincia contrapposta alla vita di una metropoli, della bellezza delle piccole cose che viene spesso dimenticata

Elso: “Milano” l'ultimo singolo, odi et amo
Elso

Luca Cascella, in arte Elso, è un cantautore genovese che ha realizzato uno dei sogni della sua vita: produrre un disco nella sua città natale, nello studio dove ha sempre voluto lavorare. Da quel momento in poi il suo progetto è andato avanti, tra vari viaggi e spostamenti in giro per il mondo per motivi di lavoro. Il suo ultimo singolo, “Milano”, racconta della dualità della vita di provincia contrapposta alla vita di una metropoli, della bellezza delle piccole cose che viene spesso dimenticata quando si cambia radicalmente ambiente, della sofferenza che il cambiamento comporta. In questo pezzo i suoni acidi dei sintetizzatori richiamano i temi della disco anni Novanta e si fondono alla sua voce, con un timbro sussurrato che a tratti si fa più violento per dare ancora più importanza e rilievo alle parole del ritornello.

A Musica361 abbiamo il piacere di ospitare Luca Cascella, in arte Elso. Buongiorno e benvenuto tra noi, come stai?

Buongiorno, grazie della vostra disponibilità. Sto benissimo e si va avanti!

Hai scelto Elso in memoria di tuo nonno. Quanto devi a lui?

Dato che i miei genitori hanno sempre lavorato tutti i giorni, praticamente io sono cresciuto con mio nonno, era una persona buona, corretta. È stato al tempo stesso sia una mamma che un papà, ha sempre cercato di trasmettermi dei valori. Ha rispettato tutte le mie scelte senza giudicarmi, quando ho iniziato a fare musica mi veniva sempre a vedere, è stata una presenza costante nella mia vita. Non potrò mai dimenticarmi di una persona così. È stato terribile perderlo. È stato un po’ un secondo padre per me, alcune volte anche un primo.

Quando è iniziata la tua storia con la musica?

Sono figlio di operai e mio padre mi aveva imposto di imparare a suonare uno strumento, quello più completo, secondo lui, era il pianoforte. All’inizio l’ho studiato controvoglia perché avevo un professore che non mi faceva amare ciò che stavo facendo, anzi, tutt’altro. non mi piaceva. Però sono una persona che quando si prefigge un obiettivo in testa cerca sempre di portarlo a termine. Sono arrivato alle scuole medie dove ho incontrato un altro professore che mi ha un po’ ripreso e mi ha fatto appassionare allo strumento. Soprattutto avevo dei compagni di classe appassionati di musica e mi hanno fatto conoscere qualche band. Abbiamo sperimentato tanto insieme e mi sono fatto una band nel 2014.

Il piano è il tuo strumento preferito?

In realtà sono innamorato del sintetizzatore, tutta la parte elettronica del disco è stata fatta con i synth.

Elso - Milano - Cover
Elso – Milano – Cover

Per un periodo della tua vita come mai hai deciso di trasferirti in Qatar?

È stata una scelta obbligata, quando ho perso il lavoro sono finito in cassa integrazione. Poi si sono aperte delle prospettive lavorative in Qatar e sono finito lì per sei mesi. Quando sono tornato mi sono fatto altri sei mesi a Orvieto sempre come operaio e poi sono tornato a Savona. Ora a Milano tento il tutto per tutto.

In Qatar hai continuato a pensare alla musica?

Sì, il disco l’ho scritto a distanza, tante robe le ho scritte lì. Ma non è una terra che mi abbia ispirato più di tanto, è piena di contraddizioni. Pochi ma ricchissimi e tantissima povertà. Non ci sono qatarini, ma indiani che sopravvivono con uno stipendio veramente misero. Ci sono nettamente due estremità di vita.

Che rapporto hai invece con Genova?

Ci sono nato ma sono cresciuto a Savona. Ogni volta che vado a Genova provo emozioni contrastanti, vorrei vivere lì ma ho paura che le mie aspettative vengano tradite. Oggi odio Milano proprio per questo, qui c’è tanto arrivismo, ci si vende, è davvero faticoso. Conosci una persona ma ha subito un secondo fine. Non è una città che collima con il mio carattere.

Viaggiamo verso “Milano”, il tuo nuovo singolo. Qual è la sua storia?

Questa canzone nasce nel momento in cui ero ai massimi livelli di frustrazione. La provincia mi stava stretta e decisi di trasferirmi a Milano, ho mollato tutto e mi sono fatto coraggio. Avevo voglia di crescere e di sentirmi capito.

Che cosa vuoi comunicare con questo brano?

Prima di fare un cambiamento drastico nella propria vita, cercate di cambiare internamente. Se non state bene con voi stessi vi troverete sempre male.

Attraverso i feedback ricevuti stai capendo che tipo di target hai?

Non mi interessa arrivare a tanti, ma avvicinare le persone giuste. Il giorno che riuscirò a portare cento persone in un locale sarò contento.

Da quando sei passato da Luca a Elso in cosa ti vedi cambiato come persona e come artista?

Sicuramente sono più disilluso, ho perso un po’ la magia. L’ambiente in cui mi sono ritrovato è stato una bolla. Sono anche amareggiato perché, nonostante un booking potente, si fa molta fatica a piazzare emergenti come me. Già era difficile prima del covid, oggi è quasi impossibile.

Elso: “Milano” l'ultimo singolo, odi et amo 2
Elso

Una tua peculiarità che hai voluto conservare?

Lo stile. Sono sempre rimasto lo stesso, non mi snaturo mai.

Hai fatto diverse aperture. Quale ti è rimasta più impressa?

L’estate scorsa ho avuto la fortuna di aprire ai BNKR44, in Toscana. È stato un concerto incredibile, la loro fan base è veramente infuocata. Sono antipasti che servono da monito per fare dei live esclusivi.

Da genovese che effetto ti farebbe andare a Sanremo?

È una macchina tritatutto, un po’ come i talent. Con la musica che faccio penso di non essere idoneo diciamo, non faccio parte di quel mondo.

Obiettivi per il 2025?

Voglio suonare, è il mio unico grande desiderio.

Quali saranno i tuoi prossimi passi?

Voglio preparare un live così incandescente da convincere tutte le persone che ascoltano la mia musica.

Un sogno che hai nel cassetto?

Fare un tour con cento persone davanti per ogni data. Mi piace stare sempre con i piedi per terra.

Bobbie Sole con  “Bellissima figuraccia” la musica diventa metafora di un percorso sensoriale, suoni e immagini evocano emozioni forti e contrastanti

Bobbie Sole: una “Bellissima figuraccia” in pubblico
Bobbie Sole

Mauro Della Rosa, in arte Bobbie Sole, è un cantante romano nato a Fiumicino. Comincia a cimentarsi nella musica con il gruppo “Mind The Flow”, crocevia della scena underground della Capitale. Concluso il periodo del rap dei collettivi, trova la sua dimensione in un suono più intimo e personale, affine alla sua scrittura, anche grazie ad alcune collaborazioni con un ancora giovanissimo Davide, oggi più noto come ThaSupreme. Il suo nuovo singolo, dal titolo “Bellissima Figuraccia”, è un brano che esplora la complessità delle relazioni, la crescita personale e la riflessione sul vero significato di vivere. La traccia si distingue per la sua profondità emotiva, il suo linguaggio sincero e la capacità di coinvolgere l’ascoltatore in un percorso di consapevolezza e introspezione. È fondamentale essere pienamente immersi nel presente, fare scelte mature e ponderate e dare il giusto valore alle esperienze quotidiane.

A Musica361 oggi diamo il benvenuto a Mauro Della Rosa, meglio conosciuto come Bobbie Sole. Buongiorno, come stai?

Buongiorno a voi, grazie per avermi ospitato nel vostro spazio, è un piacere. Tutto bene, il nuovo anno è iniziato in modo molto positivo.

Come nasce la passione per la musica?

Ho iniziato un po’ tardi, ho scritto i primi appunti a 18 anni e mi sono avvicinato al rap attraverso delle contaminazioni; però era il modo più semplice per raccontare il mio vissuto. Inizialmente era un diario, non erano concepite per un pezzo.

Da dove viene “Bobbie Sole”?

Prima c’era solo Sole e veniva da mia madre che mi chiamava così da piccolo. Andando avanti con la musica cercavo la mia dimensione partendo dal nome. Un giorno ero a casa con un amico e al telegiornale passa un servizio su Bobbie Solo e lui mi consigliò di scegliere questo nome, anche dato il mio richiamo romantico ed emozionale che un po’ gli assomiglia. La prima volta che l’abbiamo pronunciato ci ha fatto ridere ma dopo ha iniziato a piacermi e mi ci rivedo.

Il rap aiuta a tirar fuori le tue emozioni?

Assolutamente sì, è il genere che mi permette di inserire più elementi possibili nel testo, anche la struttura stessa della strofa è diversa da quella pop, in 16 barre hai più libertà di argomentazione. Sento un richiamo personale e romantico e mi faccio trascinare dalle sensazioni. Mi piace mescolarci dentro un po’ di blues e di jazz.

Bobbie Sole - Bellissima figuraccia - Cover
Bobbie Sole – Bellissima figuraccia – Cover

Chi sono stati i tuoi modelli di riferimento?

Per la scena italiana mi rifaccio a tanti ascolti dal sud, ti posso nominare ad esempio Johnny Marsiglia, come artisti americani ti direi Schoolboy Q e Mick Jenkins.

Sei di Fiumicino: che rapporto hai con il mare?

Sono un navigante, ci sono cresciuto. Anche nella musica faccio molti riferimenti o metafore sulle spiagge.

Entrando dentro la capitale, Roma cosa rappresenta per te?

È casa, mi ha donato tutte le bellezze che oggi mi circondano. Vengo dal paese e mi sono dovuto un po’ allontanare anche per cercare altri ragazzi che fanno il rap. Ho girato per Roma e gli altri quartieri mi hanno sempre lasciato qualcosa. Mi ispirano le sue radici.

Che scena musicale si respira?

Negli ultimi due anni Roma è cresciuta tanto a livello di artisti e di nuove leve, ragazzi che si affacciano sulla scena con i freestyle e con i contest. La scena sta tornando forte ma anche molto intasata, però c’è molta unione tra chi lo pratica. Bisogna fare rete tra noi, andare di persona nei locali, conoscersi di persona dal vivo.

Quali sono le esperienze che ti hanno segnato di più?

Quando Fastcut, un noto DJ italiano, ci ha invitato nel suo disco; io e il mio socio siamo nel quarto volume, abbiamo contribuito con una traccia e ci troviamo in “Dead Poets 4”. Con lui abbiamo fatto un tour e abbiamo suonato anche in Svizzera. È stato il momento più bello e soddisfacente.

Segui un processo creativo?

Sono uno di quei rapper fedele al genere nel suo approccio: per scrivere una cosa deve essere successa. Più è vero e vissuto e più viene comunicato in modo naturale. Quando sei cosciente di un fatto ne parli in modo molto razionale. Mi metto in salone sul divano col mio quadernino e scrivo.

Bobbie Sole: una “Bellissima figuraccia” in pubblico 2
Bobbie Sole

Parliamo del tuo nuovo singolo ora, “Bellissima figuraccia”. Come hai approcciato al brano?

In questo pezzo non volevo troppo scendere nel dettaglio, parlare di me ma senza risultare pesante. Volevo fosse alla portata di tutti, un ascolto non impegnativo. Mi è stato consigliato un approccio più radiofonico, più leggero, cambiare quindi il modo di impostare la struttura del pezzo, con un ritornello orecchiabile. A me piace mescolare jazz e blues e abbiamo fatto questo esperimento sulla base che lui mi ha mandato. Esperimento riuscito!

Dove ti trovavi quando l’hai scritta?

L’ho scritta la scorsa estate all’argentario e c’era un’aria particolare, molto calma e senza rumori intorno. Mi trovavo a casa di un mio amico, con questo giardino enorme con vista mare, sulla costa. C’era il mood giusto e gli odori giusti, mi ha ricordato molto il portico di casa dei miei nonni, ecco perché li ho citati nel testo. c’era molta calma, senza rumori. La musica deve avere il suo momento durante la giornata.

Perché questo titolo ossimorico quasi?

È stato ciò che mi è successo, mi sono buttato in questa conoscenza, mi sono lasciato andare mostrando le mie fragilità, con aspetti positivi e negativi. È proprio questa la bellissima figuraccia, non pensarci troppo e lasciarsi andare. Essere sé stessi senza pensare come potrebbe andare a finire.

Cosa vuoi far arrivare al pubblico?

L’importanza e la bellezza di sentirsi liberi di provare emozioni e trasmetterle.

Quando scrivi una canzone qual è la prima cosa che speri?

Che faccia bene a me, non penso troppo al dopo. Però allo stesso tempo mi sento onorato quando leggo i commenti di altri ragazzi che si rivedono in quella storia.

Qual è un tuo marchio di fabbrica?

Sono un rapper un po’ atipico rispetto ai miei colleghi. Ogni pezzo che scrivo è pensato su quella determinata base, con quei tempi e quelle metriche. Non riesco ad immaginarla su un’altra base, come fanno altri rapper che costruiscono su qualsiasi beat.

Altre passioni che porti avanti?

Mi sono accorto che la scrittura, più che una passione, è un vizio. Di tanto in tanto sento il bisogno di mettermi seduto e far uscire i miei pensieri su un foglio. Inoltre, è quasi impossibile che a casa non abbia sempre un po’ di musica in sottofondo o un accompagnamento.

Bobbie Sole: una “Bellissima figuraccia” in pubblico 3
Bobbie Sole

Da giovanissimo hai collaborato con Davide, ad oggi meglio conosciuto come ThaSupreme. Com’è stato il suo incontro?

Tramite la sorella l’ho conosciuto, ma era piccolissimo, avrà avuto 10-11 anni. Quando andavo a casa sua lo vedevo sempre suonare, una volta il pianoforte, una volta la chitarra. Era veramente ossessionato. Già all’epoca avevo il presentimento che avrebbe avuto successo. Abbiamo iniziato a fare musica insieme un po’ per gioco, abbiamo pubblicato qualcosa. Lui all’inizio si chiamava TS, le sue iniziali. Mi trovavo bene a suonare con Davide, non era tutto uscito dallo studio. Lui si costruiva il suono da solo, ci perdeva tanto tempo. È stato un bambino prodigio, sono veramente fiero e orgoglioso del suo percorso.

A cosa stai lavorando ultimamente?

Sto lavorando ad un EP dedicato ai giorni, ogni pezzo porta il nome di un giorno della settimana. Penso che non ci sarà bisogno di aspettare tanto tempo prima di vederlo fuori.

Progetti in cantiere?

Bellissima figuraccia è stato come bussare alla porta. Vorrei che si aprisse per far ascoltare la mia musica a più gente possibile.

Un obiettivo che vorresti raggiungere?

Collaborare con Johnny Marsiglia.

MaMo’s Gang: “Yassa”, un mix tra cucina e musica! Il trio mescola generi come fossero ingredienti che danno vita a nuovi colori e sapori

MaMo’s Gang: “Yassa”, un mix tra cucina e musica!
Yassa il nuovo pezzo dei MaMos-Gang (PH. Jacopo Testone)

La MaMo’s Gang è una band composta Gabbo, Squarta e Massimo Moriconi, in onore di quest’ultimo. Insieme offrono un’esperienza musicale ricca di innovazione e sperimentazione; ogni sessione in studio è un viaggio, con personalità e stili diversi che si mescolano come salse. Proprio da qui nasce “Yassa”, il loro nuovo pezzo, dal sound unico, risultato di varie culture che si intrecciano proponendo una forte diversità di approcci che generano un equilibrio armonico. Il pezzo non appartiene a nessun genere specifico, ma riflette i tre mondi diversi da cui provengono gli artisti, ovvero rap, jazz e funk.

Buongiorno a tutti, oggi a Musica361 è con noi Gabbo, uno degli esponenti della MaMo’s Gang. Benvenuto tra noi, come stai?

Buongiorno, vi ringrazio a nome di tutta la band per l’ospitalità, è un piacere essere qui, siamo carichi.

Come nasce il vostro progetto artistico?

Il nostro è un progetto sperimentale nato nel 2022, creato dalla voglia di condividere dei bei momenti insieme in studio. Veniamo da due mondi differenti: io e Squarta siamo produttori, in ambito rap e non solo, mentre Massimo Moriconi è uno dei maggiori jazzisti che abbiamo in Europa. Sono stato l’anello di congiunzione di questo progetto, poiché avendo avuto studi classici, moderni e anche jazz con Massimo, ho instaurato con lui un rapporto umano e professionale molto solido. Conoscendo le attitudini di ognuno di noi, già mi aspettavo un risultato così soddisfacente perché sapevo già cosa sarebbe potuto uscir fuori.

Come vi siete conosciuti?

Massimo è stato il mio insegnante, studiavo in conservatorio musica classica. Poi ho voluto approfondire anche lo studio del basso elettrico, e lui era già il mio mito. L’ho conosciuto personalmente ed è nato un rapporto stupendo. Aveva intravisto in me un ragazzo volenteroso in grado di portare risultati. Invece con Squarta, quando mi sono approcciato al rap, abbiamo cominciato a produrre insieme, siamo spalla a spalla tutti i giorni, come due fratelli.

Il nome MaMo’s Gang da dove viene?

È una dedica proposta da me per Massimo Moriconi, MaMo sono le sue iniziali; una stima nei suoi confronti condivisa da tutti, lui è veramente un’immagine iconica del jazz italiano, ha suonato con Chet Baker e ha lavorato con Mina tanto per citare qualche nome. È una persona di enorme spessore sia umanamente che professionalmente.

MaMo’s Gang - Yassa - Cover
MaMo’s Gang – Yassa – Cover

Che ne pensi della contaminazione di genere?

La contaminazione, a prescindere dalla musica, arricchisce l’umanità intera. Noi abbiamo tre personalità distinte soprattutto a livello musicale. Io mi trovo nel mezzo dati i miei studi, ma siamo ibridi. Massimo ha conosciuto degli aspetti del pop non così frequenti grazie a noi, e viceversa abbiamo imparato armonie jazzistiche grazie a lui. Ognuno di noi ha il suo stile ed è bello mescolare.

Parliamo del nuovo singolo, “Yassa”. Ci racconti la storia della traccia?

Questa traccia ha avuto uno sviluppo istintivo. Mentre io e Massimo stavamo parlando, Squarta stava facendo un beat; casualmente quel giorno avevo già il contrabbasso elettrico montato, d’istinto mi è venuto questo groove e Massimo poi ha creato la parte armonica. È venuta fuori quasi un jam session, eravamo in preda all’improvvisazione.

“Yassa” che significa?

È un ingrediente, una salsa orientale. Noi ci siamo sempre pensati come ingredienti diversi che mischiati andavano a creare musica quindi per i nostri brani abbiamo replicato questo approccio. Ogni nostro pezzo ha un ingrediente sparso nel mondo.

Perché la scelta di non scrivere testi e lasciare spazio solo alla strumentalità?

Siamo principalmente due musicisti e un produttore. Volevamo dare più risalto solo a questo aspetto. Non abbiamo mai sentito che il testo scritto fosse una mancanza, li abbiamo concepiti subito come brani strumentali. Non credo che in futuro cambieremo perché non siamo parolieri.

Cosa comunica questo brano?

Ci siamo divertiti nel realizzarlo e vogliamo esternare questa sensazione: aggregazione, positività. Con gli strumenti comunichiamo il nostro stato d’animo, è il nostro punto di forza.

Qual è il momento più bello che porti nel cuore?

L’incontro con Massimo è l’episodio più bello della mia vita finora. Già prima di incontrarlo era un mito per me. Gli devo tanto. Un altro momento, nei miei primi esordi, risale a quando tutte le sere stavo con la mia band dell’epoca fino a mezzanotte a suonare in cantina. Avevo la fortuna che i miei migliori amici erano studenti di musica, quindi condividevano la mia stessa passione. Questo fattore mi ha aiutato tantissimo, è stata una palestra fondamentale.

MaMo’s Gang: “Yassa”, un mix tra cucina e musica! 2
MaMo’s Gang (PH. Jacopo Testone)

Qual è un tuo credo musicale?

La dedizione allo studio. Ancora oggi, anche prima di questa intervista, mi trovavo con lo strumento in mano a studiare, credo sia fondamentale e sempre necessario. Nel mentre mi diverto nel farlo. La passione per la musica e la voglia di migliorarsi mi sono rimaste sempre allo stesso livello. “Nella vita non si smette mai di studiare” non è una frase fatta. Devi allenarti sempre di più per essere abile.

Che rapporto hai con l’arte?

Rimango sempre affascinato dal bello. La musica è la forma d’arte che mi suscita più emozioni. Al tempo stesso riesco ad esprimermi attraverso di essa. L’arte in generale mi comunica sia il sapere che la cultura. Le opere di Klimt mi fanno impazzire, i suoi disegni sono spettacolari.

Che sogno sperate di realizzare come gruppo di amici?

Fare delle date insieme in posti giusti per questo genere. Per ora i live non sono stati programmati perché richiedono molto tempo ma non li abbiamo mai esclusi, solo rimandati. Ci siamo focalizzati di più sulla parte discografica.

Un messaggio che volete lasciare a chi ci segue?

Spero che il 2025 regali più sorrisi sul viso della gente. Se riusciamo a contribuire al divertimento e alla spensieratezza con la nostra musica ne siamo veramente lieti.

Mattia Algieri: “Maglioni”, l’artista srotola il gomitolo delle sue emozioni e fa un ritratto di famiglia che suona come un atto di liberazione

Maglioni - Mattia Algieri - Copertina
Maglioni – Mattia Algieri – Copertina

Mattia Algieri è un giovane cantautore proveniente dalla provincia di Verona. Durante l’infanzia trascorre intere estati a casa dei suoi nonni, nei posti che ritrova e racconta anni dopo nei primi approcci alla scrittura. L’incontro più importante della sua vita è la collaborazione con Laura Pausini come corista del suo tour italiano. Nel suo nuovo viaggio musicale Mattia affronta temi profondi e delicati, come la fragilità, la ricerca di identità e la difficoltà nel superare il dolore.

Il nuovo singolo coglie tutte queste sensazioni: “Maglioni”, infatti, non è solo una canzone, ma un modo per esplorare lo smarrimento che si prova quando la vita, personale e familiare, subisce una svolta. Il trasferimento a Milano per intraprendere gli studi musicali diventa il punto di rottura e rinascita, il luogo dove la solitudine e la ricerca di sé si mescolano alla voglia di crescere e affermarsi. I maglioni quindi avvolgono e proteggono, suggeriscono così quel bisogno di conforto e rifugio.

Buongiorno e bentrovati a tutti. Oggi siamo in compagnia di Mattia Algieri, benvenuto tra noi! Come stai?

Buongiorno a voi tutti! Grazie per avermi ospitato, è un piacere essere qui. Sto bene e sono molto motivato in vista del futuro.

Come nasce la tua storia con la musica?

Nasce da molto lontano, ricordo che alle elementari il maestro mi sceglieva per le recite perché ero molto intonato ma lo facevo giusto per accontentarlo. Negli anni del passaggio dal liceo all’università mi sono concentrato su questa mia passione e mi ci sono buttato a capofitto. Da lì ho scelto alcuni percorsi che mi hanno formato come il CPM di Milano dove mi sono diplomato nel 2021. Ad oggi la musica è una presenza costante nella mia vita e sto cercando di farla diventare un lavoro, quantomeno stabile.

Cosa hai trovato a Milano rispetto a quando vivevi a Verona?

La rete di connessione a livello musicale, la scuola che ho frequentato è stata importantissima. Ho trovato e conosciuto persone che parlavano la mia stessa lingua, con le stesse aspirazioni e sogni; spesso essere capiti è sottovalutato. A Verona non sono riuscito a trovare questa realtà.

Mattia Algieri: i “Maglioni” che scaldano l’anima! 1
Mattia Algieri – (ph di Arianna Puccio per Studio Cemento)

Un giorno mentre sei a casa ti arriva l’ispirazione. Qual è la prima cosa che fai?

L’ispirazione è un argomento un po’ controverso per quanto mi riguarda. È qualcosa di astratto che devi mettere in pratica quando arriva, e non arriva mai a caso, prima ci deve essere sempre un piccolo periodo di allenamento. Per me l’ispirazione non esiste, va allenata. “Se solo” è nata di getto in pochissimi minuti. Dopo ci ho riflettuto sopra ed effettivamente erano mesi che scrivevo e che buttavo giù frasi e pensieri di continuo, credo sia un esercizio più o meno costante. Prendo un foglio e comincio a scrivere, a volte mi arriva subito la melodia. Poi devo dire che ho anche tante influenze, dal pop italiano e internazionale, passando per il soul, il jazz e R&B, per finire sul cantautorato.

Il tuo secondo singolo si chiama “Maglioni”. Che significato ha per te e come è uscito fuori questo pezzo?

Questa canzone nasce in un momento un po’ delicato della mia crescita che corrisponde a quando ho lasciato casa per trasferirmi a Milano. Siamo in quel periodo lì, i miei genitori si separano, mia madre rimane da sola a casa e mia sorella abitava già con la sua famiglia. Il nucleo familiare si è un po’ sgretolato.

Nonostante sapessi che dovevo andare, è stato molto difficile riuscire a staccarmi da casa, quindi “Maglioni” parla delle figure della mia famiglia. Parte con questo rumore di cassetta che associo al rapporto tra me e mia sorella, parlo di lei e del suo essere mamma da poco. Poi passo a mia madre, ho colto il suo dolore e la sua disperazione per essere rimasta sola dopo tantissimi anni. Curava la sua sofferenza uscendo di casa con le amiche. Infine, dedico più spazio alla figura di mio padre perché con lui avevo un rapporto in cui è mancato un po’ di dialogo.

Mi sono sentito sempre in difetto con lui, ho sempre avuto l’idea di non soddisfare le sue aspettative.   Da lì la frase “scusa papà non farò mai il calciatore”, perché in un momento della mia vita ci ho provato ma sono durato poco. Questa canzone è un ritratto familiare, dove io scappo da tutti con questi maglioni addosso.

Cosa rappresenta per te questo capo di abbigliamento?

Il maglione è comodo, non pretenzioso, sta bene con tutto. Permette a volte di passare inosservato, non è un capo appariscente. Allo stesso tempo rimane caldo ed avvolgente, in modo tale da restituirmi quell’abbraccio che avrei voluto ricevere.

Mattia Algieri - (ph di Arianna Puccio per Studio Cemento)
Mattia Algieri – (ph di Arianna Puccio per Studio Cemento)

Il gomitolo viola nella copertina è casuale o no?

No, è un concetto recente. Ho seguito un percorso di psicanalisi, a un certo punto durante le sedute srotolavo un po’ la mia storia. Il gomitolo viola l’ho proprio visualizzato durante una seduta, l’ho immaginato davanti ai miei occhi, gigante, come se fossi arrivato al nodo della questione e dovessi prendere questo filo e iniziare a srotolarlo.

Ci sono canzoni che rimangono chiuse nel cassetto per anni. Maglioni è tra queste?

Sì, è una tra le più vecchie, risale al 2017. L’ho ritirata fuori dal cassetto nel momento opportuno in cui ne avevo bisogno.

Senti di esserti trasformato come artista in questi anni?

Rispetto agli esordi, i primi pezzi avevano un’intenzione diversa. Quando li ho ripresi con Veronica Gori che mi sta seguendo, mi sono reso conto di essere cambiato. Sono molto perfezionista da un punto di vista vocale, ma ho capito che il perfezionismo ossessivo porta alla procrastinazione. Invece, l’approccio alla canzone è rimasto invariato, nel senso che mi piace molto parlare per immagini.

Quale elemento della tua personalità hai voluto conservare?

La curiosità nell’osservarmi attorno e notare le piccole cose. Mi sento appagato quando scopro le novità in una strada che conosco e percorro da sempre. Mi provoca uno stupore genuino, sono un grande osservatore.

Come hai conosciuto Laura Pausini?

Tramite una mia insegnante di canto, Roberta Granà: le è stato chiesto se potesse proporre un suo allievo dato che erano alla ricerca di un corista. Lei ha fatto il mio nome e da lì è partito tutto.

Che tipo di rapporto hai costruito sul campo con Laura?

Mi ha insegnato innumerevoli nozioni. La prima è dare fiducia alle persone. Lei si è fidata subito di me e mi ha dato una possibilità per svolgere questo lavoro. Non è da tutti offrire un’opportunità ad un giovane cantante come me. Laura è così come si vede, è una persona stupenda.

Ci racconti questa tua esperienza da corista? Come l’hai vissuta?

Ho imparato quasi tutto sul campo. Dalla scuola al palco il salto è notevole. Ho sempre avuto voglia e adrenalina di farlo, era il mio sogno e quando si è presentata l’occasione ero la persona più felice del mondo. Ho capito che è essenziale mantenere la voce allenata anche quando non c’è lo show, seguire una corretta idratazione, il riscaldamento, una specie di routine tecnica.

Mattia Algieri: i “Maglioni” che scaldano l’anima! 3
Mattia Algieri – (ph di Arianna Puccio per Studio Cemento)

Cosa ti piace fare nel tempo libero?

Mi piace leggere quando sento di doverlo fare, non mi costringo mai a farlo. È il libro che ti sceglie e quando succede nelle letture che pesco trovo sempre dei riferimenti alla mia vita. Inoltre, mi piace fare camminate in cui posso osservare, tornando al discorso di prima.

Cosa leggi di solito?

Mi piace molto il genere autobiografico e anche un po’ romanzato. Sono una persona attratta dalla realtà, ascolto volentieri le storie degli altri e ne attingo.

Quando hai sentito di toccare il cielo nella tua carriera finora?

Nel tour con Laura, senza ombra di dubbio.

In che direzione speri che vada questo 2025?

Spero di far uscire ancora un po’ di musica mia, mi sento come un fiume che si è sbloccato e voglio assecondare questo flusso. Mi auguro che sia un anno pieno come quello precedente, con tante esperienze e soddisfazioni personali.

Quale obiettivo da raggiungere ti sei posto?

Vorrei crearmi una nicchia di ascoltatori, anche una piccola cerchia. Mi piacerebbe un piccolo tour nei teatri o club, spazi intimi e raccolti. Vorrei occupare un posto in questa industria.

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